Abbiamo letto sul Corriere le parole di elogio del premio Nobel Amartya Sen per il trattamento ricevuto dalla moglie ricoverata al Gemelli. La signora è stata accudita al pronto soccorso con soddisfazione totale (“è fantastico pensare che tutti i cittadini di questo Paese hanno libero e gratuito accesso a cure mediche di altissimo livello, giorno e notte”) e queste parole mostrano il lato buono della sanità italiana pubblica, fatta da buoni operatori ma di cui si parla solo (spesso a sproposito) in un solo tono: malasanità. Guardiamo allora con piacere ad un seppur isolato riconoscimento per tanti operatori che hanno passato anni a studiare e che passano giorni e notti impegnati a dare il loro meglio. E in poche parole vediamo di capire quale è invece il punto da “curare” nella nostra sanità pubblica. 



Per farlo, partiamo da un esempio. Un bambino alza la mano in classe e chiede alla maestra: “Maestra, ho capito che dobbiamo mangiare cose buone per la nostra salute; ma che cosa è la salute?”. Risposta: “E’ quella che ti manca quando stai male”. “Beh, quando sto male mi mancano gli amici e il parco”. Silenzio imbarazzato che non è colpa della maestra ma di un fatto preciso, cioè che cosa sia la salute nessuno lo sa. Meglio, tutti credono di saperlo, ma nessuno sa dirlo; peggio di tutti è la definizione dell’OMS che recita “La salute è lo stato di completo benessere psichico, fisico e sociale” cioè un’utopia pura, che fa decadere ogni diritto ad averla (“diritto alla salute”), perché se non esiste la salute, cioè non esiste il pieno e assoluto benessere, chi mai potrà averne diritto? 



Eppure sui mass-media la salute è qualcosa che rasenta la perfezione, mentre il bambino di cui sopra era andato più vicino al vero di quanto si pensi. Descrissi tempo fa (Pleasing Desires or Pleasing Wishes? A New Approach to Health Definition. Ethics Med 2009) il termine salute partendo da un’osservazione quotidiana (“quando sentiamo di non avere salute?”) spiegando che abbiamo salute non quando riusciamo ad essere perfetti, ma quando riusciamo a fare le cose di tutti i giorni, che fanno le persone al nostro pari. Questo paradossalmente vuol dire che anche il malato o il disabile (cioè a colui che porterà comunque segni e sequele di una malattia) non è precluso il diritto ad essere sano, purché venga ben informato, mai lasciato alla propria solitudine, non venga illuso, non gli si faccia credere che la salute si ha solo quando si arriva ad ottenere prestazioni fuori dal comune (prestazioni estetiche o di performance: la salute dell’anziano è tale anche se ha le rughe o non corre i cento metri, e calvizie o timidezza non sono malattie!) e abbia a disposizione le giuste cure. 



E una salute che spalanchi la porta del quotidiano a tutti è una salute contagiosa, in un mondo in cui tutti invece si chiudono nel mito dell’autodecisione solitaria (“decido io se la cannabis fa bene”, “decido io con Google come curarmi”, “se il medico non mi prescrive la medicina che voglio, non vale niente”) o delle utopie (“se non sono come vorrei, magari una superstar, non sono sano”). Ma c’è un grande ostacolo alla contagiosità della salute: l’aziendalizzazione della medicina. Ho davanti a me un documento di studi sulle aziende sanitarie, nelle cui 40 pagine si tratta delle cure come di un’operazione simile a qualunque altra azienda, in cui non si nomina mai la parla “malato” ma si parla solo di “cliente”; in cui si definisce l’ospedale come qualcosa che genera “la massima salute col minimo costo” (ma il termine “minimo costo” dà sempre uno strano sapore quando si parla di salute di qualcuno).  

Aziendalizzazione: il codice medico ai tempi di Ippocrate era un semplice giuramento di 20 righe (il resto era dato dal buon senso), oggi è un libro di 100 pagine, perché si tenta con le norme di sopperire alla virtù, ma — come dice lo psicologo americano Barry Schwartz —quando si sostituisce la motivazione dell’animo umano con gli incentivi o con i protocolli, si compie un’opera antimorale, nel senso che fa passare la persona in secondo piano e nel senso che demoralizza. Le parole di Antoine de Saint-Exupery cascano a pennello: “Se vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”. Perché il personale sanitario si demoralizza se non ha davanti alti esempi, l’ideale con cui ha iniziato con sacrifici e fatica a studiare e tutto resta un computo di orari, timbrature, protocolli, DRG, mansionari. 

Insomma, è contagiosa la salute se ha due dimensioni: la dimensione di chi cura e che guarda non solo a far sparire la malattia ma a far star bene (a suo agio) integralmente il paziente; e la dimensione di chi viene curato e capisce che la salute non è supermarket di medicine, un rito in cui si pretende o si immagina talora l’impossibile, in cui si chiede talora di uscire dalla realtà o si pretende di curare la solitudine con i farmaci, ma un percorso accompagnato verso il benessere quotidiano.