Ora che il momento della prima emergenza è passato, si pensa giustamente alla ricostruzione.
Il primo impulso è dire: “Rimettiamo tutto dov’era e com’era”. È un tributo al dolore di chi è rimasto, un desiderio buono di voler, se non cancellare, perché non è possibile, almeno allontanare il ricordo della distruzione e delle perdite subite.
Si tratta però di una scelta complessa, che richiederà molto tempo e molte risorse per essere realizzata: sarà quindi opportuno ragionare un attimo, passata la prima emozione, su cosa è andato distrutto e cosa sia meglio fare, guardando più al futuro che al passato.
Concentriamo l’attenzione sull’epicentro del terremoto, il Comune di Amatrice. I dati del censimento del 2011 ci dicono che nel comune erano presenti 4.103 edifici a uso residenziale: oltre 1.000 avevano più di cento anni e solo il 7% meno di 25. Un patrimonio in parte antico ma in prevalenza vecchio.
In questi edifici c’erano 5.245 alloggi (un edificio può avere più alloggi): di questi solo 1.254 erano occupati da persone residenti, meno di un quarto del totale; gli altri 3.991 alloggi (tre su quattro!) erano utilizzati come seconde case o non erano utilizzati.
La triste contabilità dei morti ci conferma l’esistenza e la consistenza del fenomeno turistico. Utilizzando i dati della Prefettura di Rieti, sappiamo che il 67% di chi ha perso la vita (188 persone su 281) non era residente nel luogo; tra questi, 33 erano però nativi di Amatrice, anche se risiedevano ormai da anni altrove. La percentuale di decessi tra la popolazione residente è stata del 3,3%; se applichiamo la stessa percentuale di decessi ai non-residenti (la morte non fa preferenze), possiamo stimare in 5.600 circa le presenze turistiche al momento del terremoto: per un comune di 2.600 abitanti una quantità decisamente importante, anche per la tenuta dell’economia locale che non ha fonti di sostegno alternative particolarmente forti.  
Questa particolare caratteristica pone un duplice problema alla fase di ricostruzione: mentre è certo che le persone che hanno perso la propria abitazione principale andranno aiutate a costruirne una nuova, non così scontato è invece l’aiuto a chi non ha perso la propria abitazione principale, ma solo una seconda casa, in gran parte ereditata dalle generazioni passate, spesso in precarie condizioni di manutenzione e utilizzata solo per alcuni brevi periodi durante l’anno.
Non prevedere sostanziali contributi per la ricostruzione delle seconde case rischia, però, non solo di compromettere l’assetto urbanistico della città (che vedrebbe ricostruita una casa su quattro) ma anche di cancellare una delle poche attività economiche del comune, con il rischio di vedere poi abbandonate anche le case ricostruite per i residenti, costretti almeno in parte ad andarsene per il venir meno di una delle fonti di entrata.



Prima di mettere mano alla progettazione della ricostruzione, o di affrontare il tema se sia meglio ricostruire “come prima” o diversamente, occorre quindi dare con chiarezza una risposta a due domande: qual è il modello di equilibrio economico che può essere in grado di mantenere in quel luogo, in una prospettiva di lungo periodo, una comunità di persone stabilmente residenti? Come si pensa di affrontare il tema della ricostruzione delle seconde case, tenuto conto dei vincoli che limitano l’uso delle risorse pubbliche ma anche del legame che esiste tra la loro ricostruzione e la stabilità sociale ed economica locale?

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