Come si fa a non dire delle banalità, a non cadere nei luoghi comuni, davanti a un dramma straziante come quello della ragazza di Messina, ventidue anni, una vita davanti, che è stata cosparsa di benzina e data alle fiamme dall’ex fidanzato? Provo a farlo — non è detto che riesca — partendo da quattro righe del bel libro di Giancarlo Cesana Ed io che sono?, appena uscito per i tipi di Lindau. Scrive Cesana, raccontando della ragazza di cui era innamorato ai tempi dell’università e che gli aveva detto di no: “Fui costretto a prendere atto che la realizzazione della vita non dipendeva dalla forza delle mie idee ma da qualcun altro, che agiva e decideva di rispondere indipendentemente da me. Lottavo insieme ai miei compagni per una società più giusta e più libera, ma io non potevo avere ciò che sentivo più giusto per me, che desideravo di più. Mi ricordo la riflessione conseguente: o il mio desiderio, e io, siamo sbagliati; o la realizzazione della vita non dipende da me”. Ecco, questo a me pare il cuore della questione: il dramma della vita è che siamo fatti da un desiderio la cui realizzazione non dipende da noi. Dobbiamo, inevitabilmente, fare i conti con la libertà degli altri. Ci innamoriamo di una donna, è bella, è brava, la vita con lei sarebbe uno spettacolo, ma lei ci dice di no. E allora che cosa facciamo? Qual è la tentazione che tutti, tutti abbiamo? Impadronircene. Essere noi i padroni dell’oggetto del nostro desiderio, per essere sicuri di non perderlo.
Il problema allora, mi pare, non sono i corsi di educazione civica per la convivenza o di autodifesa per le donne. Certo, è verissimo, nella storia i maschi in particolare hanno sempre avuto la pretesa di essere i padroni delle donne. Ci sono culture in cui il possesso violento sulle donne è ancora considerato un valore: affermare il valore identico di ogni persona è fondamentale. Ma la cultura moderna, occidentale, egualitarista, iperliberale, non è innocente. Perché si fonda sull’idea che l’uomo è il padrone della realtà. Un’idea che ai giorni nostri si è evoluta nella dittatura dei desideri: tutto, subito, come scandivano gli studenti del Maggio francese. Se voglio una cosa me la prendo.
Il problema è che in questo modo lo uccidiamo. Inevitabilmente. Non c’è bisogno di farlo materialmente. Oscar Wilde lo dice meravigliosamente nella Ballata dal carcere di Reading, scritta dopo aver assistito all’impiccagione di un altro recluso: “Eppure ogni uomo uccide l’oggetto del suo amore/ tutti ne abbiano notizia,/ alcuni lo fanno con uno sguardo truce,/ altri con una parola adulatrice,/ il vile uccide con un bacio,/ solo l’uomo coraggioso con la spada!”. Non c’è bisogno di cospargerlo di benzina, basta imprigionarlo nella gabbia dorata di un affetto possessivo, ricattatorio: quante donne vivono prigioniere del possesso di un marito, quanti figli prigionieri dell’affetto possessivo, ricattatorio di una madre? E non sono già morti dentro?
L’alternativa vera, allora, mi sembra quella espressa in un fulminante dialogo del Miguel Mañara di Oscar Milosz: “Don Miguel: Voi amate i fiori, Girolama? Eppure non ne vedo mai né tra i vostri capelli né sui vostri abiti. Girolama: I fiori sono begli esseri viventi, e bisogna lasciare che vivano e che respirino l’aria del sole e della luna. Io non colgo mai i fiori. Si può benissimo amare a questo mondo senza aver subito la smania di uccidere il proprio caro amore, o di imprigionarlo tra i vetri, oppure, come si fa con gli uccelli, in una gabbia in cui l’acqua non ha più il gusto dell’acqua e i semi d’estate non hanno più il gusto dei semi”.
Sembra proprio rispondere a Oscar Wilde: si può amare senza uccidere il proprio amore. Ma per questo occorre riconoscere che la realtà è un dono, che non sono io il padrone del mondo. Imparare ad amare così: questa mi pare la vera sfida.