Sarebbe meglio tacere, almeno attendere, nel dire qualche parola, di fronte ai “fatti di Ferrara”, come vengono chiamati, cioè i genitori uccisi dal figlio 16enne e dall’amico 17enne, per mille euro. Così come davanti ad altrettanto innominabili fatti del passato: Pietro Maso a Verona, Erika ed Omar di Novi Ligure, il caso Carretta a Parma, Perugia con l’assassinio di Meredith Kercher, l’omicidio di Ismaele Lulli in provincia di Pesaro, e altri.



Ma i ragazzi che da tanti anni accogliamo nelle comunità terapeutiche de L’Imprevisto ci aiutano a capire, ci aprono un poco gli occhi. 

La prima considerazione che buttano lì, il primo dubbio, riguarda la presenza, l’uso e l’abuso in tutti questi atroci delitti delle sostanze stupefacenti, della droga insomma. Temono, e noi educatori con loro, che vi sia una generale sottovalutazione se non addirittura una colpevole negazione di questa presenza. E’ difficile pensare che la droga non la faccia da padrona, considerata l’efferatezza, la ferocia, il numero di colpi abitualmente inferti, la modalità di esecuzione, le varie, più disparate e occasionali armi usate, l’insistenza, la premeditazione, l’accanimento, il senso di impunità. Tutte queste sono evidentemente conseguenze anche della droga, questi sono gli immancabili effetti delle sostanze.



Certo il disagio giovanile, l’abbandono, i problemi personali, familiari, sociali, la fragilità psicologica o psichica… ma se a questo aggiungi il sentimento di onnipotenza, la sensazione di sentirsi dei semidei che la droga ti porta, la forza incontrollata e spropositata di cui ti carica, allora si riesce a rendersi conto maggiormente degli avvenimenti in questione. 

Perché non si dice e non si scrive — o si dice e si scrive troppo poco — che c’è sempre, quasi sempre di mezzo la droga, in tutti o quasi tutti questi drammaticissimi fatti? 

L’altra considerazione la buttiamo lì noi come diretta conseguenza della prima: tantissimi giovani pensano di essere al mondo inutilmente, vanamente. Ritengono che non ci sia nulla che valga veramente la pena. Che nella realtà non ci sia una presenza, un volto, una chiamata. A dire il vero questo lo pensano in genere gli adulti, allora al ragazzo rimane un unico scopo, un unico desiderio: il potere. 



La vita è, conta, e tu vali, solo se hai potere. 

Quale potere più grande, pertanto, per un giovane che quello di uccidere. Di uccidere sé stesso, i propri cari, di martoriare il proprio corpo con la droga, l’anoressia, la bulimia, il cambiare sesso, “scegliere l’omosessualità”, il bullismo, sfregiare il volto con l’acido, il femminicidio, il gioco d’azzardo, internet… Tutte queste esperienze sono manifestazioni del potere di cui io ho bisogno per vivere, per essere, per contare.  

Ecco, se la logica del mondo è questa, se il senso della vita è solo il possesso, il potere, il comando, allora si capisce, è inesorabilmente inevitabile, che la droga sia il potente alimento, il necessario utilissimo alleato per questo. Se la vita non è un imprevisto, un dono immenso e affascinante pur nella sua drammaticità, non resta che esercitare un potere, voluto come altrettanto immensamente grande. Appunto, innanzitutto verso di me, sulla mia persona; sui miei cari (le tante e infinite violenze intrafamiliari), principalmente verso e contro i genitori, in quanto ritenuti responsabili e rappresentanti di una promessa tradita.