Caro direttore, 

Vorrei cogliere l’ennesimo dolore che ha ferito la terra d’Abruzzo in questi giorni come la possibilità di condividere alcune riflessioni.

La prima riflessione mi ha sorpreso mentre l’altro giorno ascoltavo la radio e un signore, molto convincente e dalla voce autorevole, diceva che “Io, finché tutti i miei concittadini colpiti dai terremoti di questi mesi non avranno un tetto sopra la testa e non si saranno spesi i soldi necessari a mettere in sicurezza i nostri paesi, di migranti e di accoglienza non voglio sentir parlare”. Credo si debba dire quello che tutti sappiamo: nel nostro paese, e più in generale in Europa, questo ragionamento è diffusissimo ed è tutt’altro che poco convincente. Qual è il punto qualificante di affermazioni come questa? L’esperienza che ciascuno fa del proprio bisogno, il credere che il bisogno dell’altro non c’entri col mio, ma sia ad esso o di ostacolo o alternativo. Le donne di Kampala, che più di dieci anni fa dalla loro povera terra inviarono una raccolta fondi agli statunitensi che avevano perso tutto nell’uragano Katrina, ci insegnano che solo un bisogno accolto sa accogliere. La colonna sonora che anima questo lungo inverno italiano è proprio l’incapacità di accogliere il bisogno dell’altro, il non comprendere che il primo modo per stare di fronte al mio bisogno è che io accolga il bisogno dell’altro. Ma questo può accadere solo se io, anzitutto, sono accolto.



E qui vorrei far emergere la seconda considerazione che mi pare possa essere utile per una riflessione collettiva: la speculazione politica attorno al terremoto, il clima che contraddistingue i post e i commenti dei social network, le continue battaglie ideologiche portate avanti da settori contrapposti dell’opinione pubblica a forza di petizioni e di “guerre di religione” fanno capire che ciò che più manca in questo momento è una presenza pubblica capace di ricostruire la comunità civile e sociale del nostro paese. Nell’epoca  in cui ci troviamo ciò che fa la differenza non sono le leggi, ma una presenza capace di ridestare in noi la memoria di un’appartenenza collettiva, comune, che va al di là delle nostre storie personali o degli appelli, ma che ci rende comunità, popolo. 



Facebook è nato nel 2003 come un social network di universitari, oggi di giovanissimi spesso nei dibattiti virtuali non se ne vede neppure l’ombra: tutti hanno un profilo, ma chi parla, interagisce, sono gli adulti di tutte le età, rendendo la rete specchio di un’individualismo esasperato e di un collettivismo elitario che ha letteralmente distrutto il nostro paese e il nostro continente almeno negli ultimi dieci anni. Ciò che ha dilaniato il nostro contesto sociale e civile non sono stati tanto Instagram, WhatsApp o Facebook: questi “luoghi” si sono rivelati come strumenti, quasi “acceleratori”, di qualcosa che era in corso e che ha trovato nel web la sua più ampia risonanza, ossia la fine di quella fiducia reciproca che sta alla base di ogni convivenza umana.



Noi oggi soffriamo di un gigantesco problema di fede per cui la salvezza —la felicità — della vita viene solo da quello che vogliamo e otteniamo, non da quello che incontriamo. La realtà non è più la casa comune che attende ogni uomo che esce dal grembo della propria madre per farlo maturare e crescere, ma è una matrigna cattiva da combattere e censurare. Emblemi di tutto questo sono casi come il dj Fabo che, dopo un incidente stradale, ridotto in condizioni sanitarie gravissime, chiede l’eutanasia al presidente Mattarella, o la crisi di istituzioni come il matrimonio in cui il tempo — che è la vera condizione per incontrarsi — diventa invece lo spazio della morte del desiderio, del rispetto, dell’amore. Anche le polemiche contro lo Stato — sempre e comunque — sono specchio di questa sfiducia nei confronti di quello che c’è a favore di quello che ci dovrebbe essere. È la vittoria nei fatti di quella sinistra hegeliana che voleva rendere reale tutto ciò che nella propria testa era razionale. Ma la vita, e la storia, non funzionano così. 

Concludo, allora, evidenziando con convinzione la grazia che il mondo ha avuto con l’arrivo di Papa Francesco: egli da subito, quattro anni fa, parlò di rendere la Chiesa un ospedale da campo, per primo si recò a Lampedusa dove migliaia di vite stavano morendo nel tentativo di migrare, con tenacia si adoperò per mettere al primo posto dell’agenda mondiale la povertà, la cura della nostra casa comune e le ferite delle famiglie. Non c’era nessuna “agenda” in quelle mosse, solo il nobile tentativo di ricondurre la Chiesa a essere, nel tempo, il Corpo della Presenza disarmata del Crocifisso Risorto che non giudicò il mondo, ma lo salvò. “Lascia che il mondo rida di te se la tua vita salvarlo potrà” dice una canzone. 

Oggi la strada di Pietro, la strada della Chiesa, sembra essere diventata proprio questa: non la difesa delle proprie ragioni, ma l’offerta di sé per la salvezza del mondo. Un compito semplice e imponente al contempo, dinnanzi al quale è normale ci siano resistenze e perplessità. Stiamo infatti parlando della questione decisiva dell’esistenza, ossia il motivo per cui siamo al mondo. Il Papa ci dice che la vita ci è stata data per essere donata, per essere data, e non per essere esaudita e risolta. Eppure la presenza di un uomo così grande, come una volta mi ebbe a dire l’onorevole Bertinotti, porta con sé un ultimo segreto: l’atto di libertà di Papa Benedetto. 

Quattro anni fa, in mezzo alla neve, fu quel gesto a spezzare il nostro lungo inverno. Adesso tocca a noi. Abbiamo imparato qualcosa da quell’atto di povertà e di fiducia? I nostri concittadini terremotati, i migranti, nostra moglie, i nostri figli e i nostri amici — anche se non lo sanno — attendono con trepidazione la risposta a questa domanda. Attendono con trepidazione il miracolo di un io libero, disposto a sacrificare le proprie idee e la propria vita per l’amore ad una Presenza più grande di tutte le nostre riduzioni, una Presenza che, attraverso questa terra che trema, ci chiama e ci attrae.