Chiunque entri almeno una volta nella sua vita nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau non può non rendersi conto di un elemento dominante su tutto: non è il dolore, non è l’odio e neanche la paura o l’angoscia per tutti quei frammenti di vita e di morte rinchiusi tra il filo spinato e il terribile “Arbeit macht frei”. Nulla di tutto questo, o almeno tutto avviene in seconda battuta; come invece ha sottolineato Primo Levi nel suo Se questo è un uomo e come lui anche Papa Francesco o Papa Benedetto nelle loro visite al lager nazista. «Un silenzio attonito. Siamo arrivati in fondo. Più già di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Speriamo che sia vero», scriveva il chimico-scrittore di Torino. Un silenzio pervade l’intero campo di concentramento, un silenzio che racchiude tutto, rispetto, angoscia, paura e preghiera per quanto riporta alla mente una tragedia immane come la Shoah. In un messaggio lasciato dalla Pastorale Giovanile della Chiesa Cattolica in occasione della Giornata della Memoria, viene sottolineato proprio l’aspetto del silenzio; «Silenzio, quello che serve per provare vergogna per quello che è successo, e la preghiera che non capiti mai più». Un ricordo non ha bisogno per forza di parlare o urlare, ma può essere maggiormente capito perché umilmente osservato in un disposizione. La memoria “attonita” di un silenzio “assordante” perché l’uomo rifletta sul possibile male scatenante in qualsiasi condizione. Dunque non solo nella pur orribile e irripetibile ideologica nazifascista.
In uno dei capitoli di Se questo è un uomo, Primo Levi si sofferma su un punto nodale della tragedia della Shoah vissuta ad Auschwitz, nella sua permanenza forzata al campo di concentramento: «la vita all’interno del lager è ambigua: è bene che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria?», si chiede il chimico torinese come scosso da quanto appena raccontato nei capitoli precedenti. La risposta è affermativa e il testo in sé ne è la dimostrazione, eppure una memoria particolare per una condizione di uomo del tutto drammatica se non addirittura disperata. «nessuna esperienza umana sia vuota di senso e indegna di analisi, neanche la più terribile. Il lager è stato una gigantesca esperienza biologica e sociale». La vita entro Auschwitz per Primo Levi è schematicamente riassumibile in una duplice condizione: «noi non crediamo alla facile deduzione che l’uomo sia in origine brutale, egoista o stolto come quelli che abbiamo visto nel campo di concentramento. Viene in luce come qui, come nella vita, esistono due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi.lo spazio tra la categoria delle vittime e degli aguzzini non è vuoto, bensì «costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo) che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana». Solitudine di tutti, sia vittime che aguzzini, una solitudine che per Primo Levi arriva a generare mostruosità che Auschwitz e in cui una possibilità di “perdono” o di “vita” è assai difficile….
La giornata della memoria ogni anno ricorda tra gli altri anche la storia di Primo Levi, il grande scrittore e chimico torinese che sopravvisse alla Shoah e alla tragedia nel campo di concentramento polacco di Auschwitz-Birkenau. Un uomo, anzi “Se questo è un uomo” titolava nel suo unico libro-diario sui giorni cupi all’interno del lager nazista dove morirono più di due milioni di persone, tra cui ebrei, cristiani, omosessuali, zingari, prigionieri politici, insomma chiunque non appartenesse o ostacolasse con la sola “vita” l’assurda follia nazifascista. Se questo è un uomo è il primo libro pubblicato da Primo Levi, che lo scrisse dopo essere sopravvissuto al Lager di sterminio di Auschwitz e dopo aver attraversato l’Europa intera in un viaggio di ritorno durato più di otto mesi. Scampato al lager, tornò avventurosamente in Italia, dove si dedicò con forte impegno al compito di raccontare le atrocità viste e subite: ma lo segno profondamente quella esperienza, tanto che la sua stessa morte avvenuta nel 1987 non si seppe mai fosse frutto di una caduta accidentale o di un tentativo purtroppo riuscito di togliersi la vita col suicidio. Ma allo stesso tempo Primo Levi è un uomo, semplice come tanti altri, che ha saputo regalare e lo farà per sempre la memoria di quanto avvenuto in qui pochi ma terrificanti anni di dominio nazista. I campi erano di sterminio e per lui la testimonianza non era solo obbligatoria ma proprio “necessaria”. In Se questo è un uomo Levi svolge il racconto di un intero anno, dal febbraio 1944 al 27 gennaio 1945, trascorso nel Lager di Buna-Monowitz. La Buna era uno dei quarantaquattro campi satelliti di Auschwitz, in Alta Slesia, nel territorio polacco. Il racconto è frenetico, non ordinato ma tutto teso a raccontare la realtà che lo circondava, ovvero l’unica “vera” verità riguardo l’orrore di Auschwitz e di tutti gli altri campi di concentramento.
Primo Levi nel passo forse più importante del suo racconto sul campo di concentramento di Auschwitz: «voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no». È il passo fondamentale di Se questo è un uomo e rimane scolpita negli anni come la cruda descrizione umanissima di un uomo che fatica a ricuocere la sua stessa identità di persona. Un semplice chimico trasportato solo perché di origine ebrea nei vari campi di concentramento della dominazione nazista, riuscì a raccontare quella sua tragica esperienza: lo fece in maniera però più “umanista” che scientifica, senza un ordine logico ma solo cronologico, come se quell’esperienza non potesse reggere se non vissuta con la cruda e semplice esperienza umana. Come si legge nel portale dedicato a Primo Levi, «Secondo la testimonianza dell’autore, le varie parti di Se questo è un uomo non vennero scritte in ordine cronologico, ma secondo l’urgenza del raccontare: l’ultimo capitolo, Storia di dieci giorni, che è steso in forma di diario, nacque per primo. Pochi altri libri portano impresso come questo il segno della necessità assoluta. Non per niente l’opera si apre con una poesia (Shemà, in ebraico: «Ascolta»), che dopo aver chiesto al lettore di considerare se ancora si possa definire «uomo» colui «Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no», gli comanda attenzione e memoria per quanto gli sarà riferito». Nessuna compassione, non l’amava lo scrittore, ma solo la lucida consapevolezza che da quella esperienza l’umanità dovesse finalmente capire cosa era in grado di “realizzare”: «il mio intento è solo quello di fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». Un dolore grande, che chiunque abbia mai varcato quella scritta all’ingresso di Auschwitz ha almeno per un attimo provato nel proprio cuore e nella propria anima; un dolore unico ma appunto “necessario”. (Niccolò Magnani)