Caro direttore,
“Partecipate alla marcia? Quante delle vostre sorelle (suore)? Vogliamo marciare assieme? Noi possiamo arrivare con MetroLink e incontrarci alla Union Station, all’angolo della 18 Street, vicino alla scala mobile della stazione alle 8:45”. Testuali parole, tradotte, che mi sono arrivate via email. Prosegue, dopo essersi presentata come una blogger del National Catholic Reporter di St. Louis, dicendo che gli editori le hanno chiesto di contribuire seguendo la marcia, e lascia il suo numero di cellulare se le sorelle-suore vogliono essere intervistate per condividere la ragione della loro partecipazione.



La lettera è indirizzata alle suore di St. Louis della Società del Sacro Cuore, che nasce in Francia nel 1800 e semina scuole per educare le femmine, ordine parallelo a quello dei gesuiti per i maschi, e lo fa in Europa, nelle Americhe e in Asia. Alcuni giorni prima era arrivata la lettera ufficiale della società che si rivolgeva alle suore, agli insegnanti, alle associate e alle loro alumne (le studentesse dei loro licei già diplomate) chiedendo adesioni e offrendo spazi per ospitare chi ne avesse bisogno.

Le conosco. So qual è il loro potere. Rimasi colpita. Compresi che la grande marcia del 21 gennaio sarebbe stata spettacolare, quindi storica. Questa piccola idea che parte da una singola persona perché vuole esprimere le preoccupazioni che sono già quelle di mezzo paese, e farlo simbolicamente il giorno dopo l’inaugurazione presidenziale negli Stati Uniti, sarebbe diventata così enorme che non bastava Washington, D.C., ed ecco che la mappa di questa America si è illuminata in varie città da est a ovest, da nord a sud: la solidarietà è sorprendente. Hanno marciato le donne con le loro figlie, le suore con le loro sorelle anche di altre congregazioni, chiese e templi. I numeri non li sapremo mai, ma si è calcolato almeno mezzo milione solo nella capitale. Così, se con loro ci fossero stati i mariti, i padri ed i fratelli le strade non avrebbero potuto contenerli. 

Gli scettici e gli amareggiati, o quelli ciecamente pro nuovo presidente, hanno già decostruito se non apertamente distrutto, e anche spesso poco elegantemente, il valore e il significato della grande dimostrazione che ha segnato un momento non irrilevante in questo capitolo di storia perturbante per tutti. Non c’è alcun dubbio che il gigante si sia risvegliato dopo un lungo sonno, ma ora si sta a vedere se ci saranno i leader per portare avanti ciò che si è proposto come un movimento per salvaguardare quello che ancora vogliono chiamare democrazia, e alla cui base sta niente di meno che la libertà di espressione. Perché quando chi governa il paese più potente dichiara che il suo nemico è la stampa, credo sia preoccupante non solo per quella singola persona che su Fb fece appello agli amici, e tutti quelli che a lei hanno risposto e si sono messi in marcia, ma anche per gli altri come noi che stiamo in questo momento scrivendo per i nostri giornali. 

Gli eventi di questo ultimo weekend hanno provocato spontanee proteste non solo a JFK ma in altri aeroporti degli States, assieme a quelle dei principali giornali del paese, le cui forti critiche al neopresidente (il quale sembra aver fatto una specie di Wish List emettendo con velocità senza precedenti nuove regole che hanno creato disagio e sarebbe dir poco, meglio scompiglio e indignazione) fanno pensare che forse i leader non servono più così tanto. Perché nell’epoca digitale sembrano esserci un’indipendenza e una coscienza civile così autonome che si organizzano e si propagano come il fuoco con il vento e l’urlo cantato all’aeroporto di New York: “Tear it down, fuck the wall” è quella di un popolo il cui simbolo più importante sta nella baia tra i suoi due fiumi. E quella gigantesca statua vuole accogliere. Il suo nome è Liberty.