Niente giudizi sommari. Al di là di responsabilità specifiche sulla morte della donna ivoriana, che sono in corso di accertamento, la vicenda del centro profughi di Cona nel Veneziano è emblematica di una questione molto più generale e di indubbia gravità: i pesantissimi limiti del nostro sistema di accoglienza, pieno di contraddizioni, e nel quale spicca la mediocrità della politica senza discriminazione di colore e di schieramento. 



Un dato subito, per rendere l’idea: l’insediamento di Cona ospita ben 1.400 persone, e da mesi. Una situazione che non poteva che diventare ingestibile; e che è destinata a replicarsi se non si cambierà rapidamente rotta. Lo sa bene il neoministro degli Interni Minniti, che come primo provvedimento ha spostato un centinaio di immigrati in Emilia.



Quali siano le controindicazioni, è presto spiegato. Il centro è stato ricavato in una ex caserma dismessa, in un Comune che in tutto non fa neanche 3mila anime. Inutilmente, da tempo il sindaco Alberto Panfilio (espressione di una civica di centrodestra) ha protestato contro la scelta di ammassare in quel posto centinaia di persone: nessuno gli ha dato ascolto. 

E oggi è egli stesso a denunciare che i profughi di Cona vivono in condizioni inadeguate. Che sono poi le stesse di tanti altri luoghi, indipendentemente dal numero delle persone accolte. Chi arriva chiede il riconoscimento dello stato di profugo, ma per avere una risposta passano mesi. In caso di bocciatura, può presentare ricorso; e passano altri mesi. Con una importante sottolineatura: in Veneto, l’esame delle domande viene gestito in termini estremamente restrittivi, respingendo la larga maggioranza di esse; al contrario di quanto accade ad esempio nella vicina Emilia. E già qui c’è un primo limite a livello nazionale: non stabilire criteri omogenei per i singoli territori.



La conseguenza principale è che gli immigrati sono costretti a un lunghissimo parcheggio, senza nel frattempo poter svolgere una qualche attività: si trovano quindi di fatto condannati a un’estenuante e prolungata inedia, in cui è facile che maturino tensioni anche di particolare gravità, come quella di Cona. 

L’alternativa ci sarebbe, ed è pure dimostrato che funziona lì dove applicata; ma rimane in larga parte ignorata, per una serie di resistenze locali. E’ quella dell’accoglienza diffusa, raccomandata anche dalla Conferenza episcopale italiana all’indomani dei fatti di Cona, ma d’altra parte promossa da anni dalla Caritas: piccoli numeri da inserire nei contesti locali, favorendo così un’inclusione che prevede anche lo svolgimento di una serie di attività, a cominciare dai lavori socialmente utili, e un più agevole insegnamento dell’italiano e delle regole di base del vivere comune. 

E’ un’esperienza largamente praticata nel vicino Friuli-Venezia Giulia: un’area oltretutto particolarmente esposta, perché il flusso di profughi si alimenta con grandi numeri attraverso la frontiera orientale con Slovenia e Croazia.

E’ chiaro che dove il fenomeno non si gestisce ma si subisce, fermentano reazioni anche estreme. Che peraltro, in una terra fortemente leghista, non assumono i toni populisti di un Salvini: la risposta del presidente della Regione Zaia è stata decisamente più moderata, e va tra l’altro sottolineato il suo apprezzamento delle scelte di rigore sui clandestini annunciate dal ministro Minniti, per contro stroncate dal segretario nazionale del Carroccio. 

Né va dimenticato che il Veneto è sempre stato proposto, dalla Caritas in primis, come una delle aree più accoglienti d’Italia nei confronti degli immigrati, a partire da province più leghiste di altre come Treviso e Vicenza. 

E’ di tutta evidenza, d’altra parte, che un problema così massiccio non si affronta a base di proclami e di esibizioni muscolari; tanto più che il calo demografico costante della popolazione italiana renderà indispensabile nei prossimi anni un ulteriore apporto di stranieri, come ben sottolinea il demografo Gianpiero dalla Zuanna, padovano, senatore Pd. Il quale, dal canto suo, ha da tempo proposto una soluzione concreta, basata proprio sull’accoglienza in piccole comunità, bocciando la scelta di grandi strutture come quella di Cona. 

Si tratterebbe, in concreto, di sistemare un profugo ogni mille abitanti, contando anche sui finanziamenti europei e del governo nazionale, che sollevano i Comuni da oneri economici di qualsiasi tipo.

Ma è anche indispensabile snellire le procedure sul riconoscimento dello status di rifugiato, e garantire in loco forme di integrazione ad hoc che vanno dall’insegnamento dell’italiano al lavoro. Altrimenti, il fuoco di Cona finirà per rivelarsi solo il principio di un devastante incendio.