Cosa c’entra la Befana con L’Epifania? Puoi togliere i crocefissi dalle classi e dalle aule comunali, puoi chiamare Pasqua “Festa della Primavera” ma se dici che Babbo Natale non esiste, vieni licenziato. È storia di pochi giorni fa: “E comunque Babbo Natale non esiste”. Lo aveva detto il direttore d’orchestra Giacomo Loprieno all’Auditorium Parco della Musica di Roma al termine dello spettacolo musicale dedicato al film Disney “Frozen”; si è fatto consegnare il microfono e ha scandito la frase, che ha scatenato polemiche e proteste da parte dei genitori, tanto da portare gli organizzatori al licenziamento del musicista.



Non voglio mettermi anch’io contro Loprieno, ma solo cogliere un aspetto della vicenda: e cioè se Babbo Natale è intoccabile forse è così perché, attraverso di lui, il Natale arriva, anche attraverso strade misteriose e sconosciute, a tutti ma proprio tutti. C’è in quel padre buono barbuto e panciuto un desiderio di paternità e filiazione bambina che tocca atei, miscredenti e credenti che non badano più alle polemiche sulla libertà di espressione, di religione, di parola, di pensiero. Chi tocca Babbo Natale, muore, leggasi viene licenziato.



Ora dopo Babbo Natale è l’ora della Befana, la vecchina brutta e dotata di scopa di saggina. Tocca a lei parlare di Epifania ad un mondo che di luce ne vede poca ma ne desidera molta. E se saranno pochi quelli che andranno a Messa chiedendosi se oggi è di precetto, e ancora di meno sapranno che “Befana” non è altro che una balbettante alliterazione del più complicato “Epifania”, saranno moltissimi, tutti direi, quelli che metteranno i dolci nelle calze dei bimbi. Dolci e giochini, mi permetto di dire, più piccoli rispetto a quelli sotto l’albero. Così semplici da consentire alla Befana di rimanere più immacolata di Babbo Natale. Mentre sotto l’albero di Natale ci trovi di tutto, la Befana resiste con i suoi dolci e con il suo carbone. Ma anche lei, con parole simili a Babbo Natale, ci parla: il nonno barbuto parla di Natale, la vecchina col naso adunco parla di Epifania.



Perché abbiamo bisogno di doni, abbiamo bisogno di semplicità. E la Befana ce li promette entrambi. Arriva di notte, arriva con le scarpe rotte, arriva con i suoi dolci a riempire sogni e calze. E anche noi siamo in una notte, metaforica ed economica ma non meno paurosa di quella buia dei bambini. Anche noi abbiamo le tasche — oltre che le scarpe — rotte. E quindi, questa, è la nostra notte: la notte dei doni. Come a Natale e più che a Natale.

Perché non tutti noi ci possiamo permettere giochi costosi, ma invece tutti noi possiamo permetterci caramelle e cioccolatini e zuccheri colorati. E tutti li possiamo mangiare e dirci che sì, anche noi abbiamo bisogno di doni. E in questo modo arriviamo a quella capanna e a quella casa. Perché i doni non te li puoi fare da solo e Natale è, per antonomasia, Dio che predica relazione.  

Non so se ci avete fatto caso ma, secondo i vangeli di Luca e Matteo, tutti quelli che vanno a trovare il Bambino ci vanno in gruppo: la Sacra Famiglia, i pastori, i Re Magi. L’unico che dice di volerci andare da solo, Erode, alla fine non ci va. Questa necessità di comunione io la trovo ben espressa dai dolcetti nella calza. Perché dono vuol dire sorpresa, e sorpresa vuol dire qualcuno che ha pensato a te. Qualcuno che in un dono mette tutte le parole che a voce non si possono dire.

Natale ed Epifania ci parlano di luci, di nascita e di doni. Babbo Natale e Befana usano il medesimo linguaggio teologico: quello del cuore umano. Si sta in famiglia tutti insieme e ci  si scambia doni. Sarà per questo, mi raccontava una signora, che anche il figlio di 20 anni e la figlia di 19 mettono ancora le calze accanto a quelle dei fratelli più piccoli. Perché mettere qualcosa di vuoto e trovarlo il giorno dopo pieno di dolcezza donata da chi ti vuole bene, non è una metafora anche se lo è. Si chiama vita, si chiama amore.