Egregio signor Justin Rosenstein, le dico la verità: quando l’ho letto non volevo crederci. Lei, l’inventore del “Like”, di quel bottone, se così lo si può chiamare, che premiamo in modo compulsivo quando qualcuno dei nostri “amici” pubblica qualcosa di sé su Facebook, o che compulsivamente controlliamo, per vedere se esistiamo, se agli altri interessa di noi, se anche a noi tocca un po’ di “fama”, che misuriamo infallibilmente grazie alla sua geniale intuizione; lei, cui dobbiamo a partire dal 2007 qualcosa che ci sta cambiando la zucca, anzi, che ce l’ha già cambiata, lei, proprio lei, adesso si tira indietro e rinuncia all’uso di Facebook!



E non solo: in un’intervista al Guardian ci va giù duro, ammette di aver inventato, pur con tutte le buone intenzioni di questo mondo, qualcosa che è davvero dannoso, che “non va”. E addirittura ci mette in guardia tutti: stiamo davvero marciando verso una distopia, cioè un’utopia negativa che sta realizzando una manipolazione totale.



Egregio signor Justin Rosenstein, mi permetta di ringraziarla. E sì, perché se è lei a dire queste cose, lei, un geniaccio di appena 34 anni, una delle teste pensanti del pool della Silicon Valley, allora c’è veramente da crederci e magari da mettersi una buona volta in allarme. Forse qualcuno seguirà il suo esempio, centellinerà le sue visite ai social network, smetterà di darsi tutto in pasto a tutti, o di fingere una personalità che non ha, o di spiattellare il proprio patetico narcisismo in faccia al mondo intero. Forse qualcuno rinuncerà ai suoi contatti, ma in compenso ritroverà il contatto con la realtà e sarà meno depresso, meno ansioso, o anche solo meno superficiale e meno stupido.



Però vede, signor Rosenstein, lei, pur con tutto quel suo geniale cervellone, mi fa anche un po’ pena. Certo, perché è stato usato e si è fatto usare. Me lo immagino, lei e il suo pool, nella stanze-pensatoi della Silicon Valley, a cercare la trovata giusta che “bucasse” la rete. Lì si studiano gli uomini per fregarli meglio, si identificano le loro debolezze, le loro insicurezze, le loro vanità per realizzare qualcosa che li coinvolga e li porti dove devono essere portati. E voi cercavate il modo di giungere a questo obiettivo. Vi sarete divertiti un mondo ad immaginarci mentre vendiamo i nostri segreti o i nostri sogni impossibili obbedendo agli stimoli del nostro narcisismo. Adesso, però, capisce anche lei di essere stato come il mattoncino di un brutto muro, brutto e pericoloso e malato. Si guarda allo specchio e forse si vergogna. Non è mai troppo tardi, o troppo presto.

La sua creatura le è sfuggita di mano. Sfugge di mano a tutti. E’ stato creato un uomo nuovo che ha generato un nuovo popolo, gaio, incosciente, felicemente manipolato, il “popolo dei selfie”. Lei lo ha capito e si è spaventato. In fin dei conti è fortunato, forse perché dal suo speciale punto d’osservazione l’orrore è più interamente visibile. Il popolino dei selfie, invece, non vede al di là del proprio naso rispecchiato nella rete. E’ un uccello preso nella rete che si crede libero. Se prima rideva anche lei, signor Rosenstein, adesso non ride più, si è spaventato. Ci ha fatto caso? Il suo cognome assomiglia tanto a un cognome famoso, Frankenstein. Nomen omen?

Adesso, però, cerchi di riparare. L’intervista al Guardian è già qualcosa, ma bisogna continuare a gridare, a farsi sentire. Dica, per esempio, che a volte sarebbe meglio frenare il proprio ingegno, anziché lanciarlo a briglia sciolta. Veramente l’aveva già detto il nostro Dante, che non so quanto dalle vostre parti si legga e si studi accuratamente. L’ingegno deve essere controllato e guidato dalla virtù, altrimenti va incontro al disastro. Lei, con la sua storia, con il suo serio esame di coscienza ce l’ha ribadito. Allora gridi, “in pro del mondo che mal vive”, anche se temo che non sarà ascoltato. Il mostro non si ferma più, il carro è in discesa. Avete fatto tanto per bombardarci tutti, senza distinzioni di sesso, età, ruoli sociali, senza censure, che una generale controrivoluzione è, questa sì, un’utopia.

Lei potrà chiamarsi fuori da questo sporco gioco. Ma il popolo dei selfie continuerà a giocare, vittima incosciente, ma non per questo innocente, dei grandi burattinai che hanno manovrato anche lei.