Viene voglia di guardarli con una certa tenerezza questi studenti delle scuole superiori che si agitano nelle piazze italiane. Anche se tirano pomodori o imbrattano le vetrine del McDonald di Palermo, anche se tirano fuori slogan poco credibili, che qualcuno sembra avere costruito per loro per l’occasione ghiotta che, sempre qualcuno, sembra avere architettato per questa situazione. L’occasione è quella di uno sciopero che ieri e oggi, e forse nei prossimi giorni, si svolge e si svolgerà in diverse città italiane contro l’alternanza scuola-lavoro. Non c’è forse nemmeno bisogno di ricordare di cosa si tratta, sulle pagine del giornale ce ne siamo occupati a più riprese, per il ministro Fedeli continua ad essere una grande innovazione didattica per tutte le scuole, per un apprendimento trasversale di competenze. Per i giovani delle piazze italiane, invece, pare essere una specie di condanna ai lavori forzati: lo slogan più gettonato, infatti, diceva che gli studenti sono studenti, mica merce. Merce da regalare alle multinazionali, merce senza valore.
Insomma, pare che il motivo più importante per questo sciopero sia quello di lamentare lo sfruttamento del lavoro gratuito che attraverso questa attività viene perpetrato nei confronti degli studenti. Di chi sono le parole che dicono? Chi rappresentano gli studenti della piazza di questi giorni? Se guardiamo i risultati di alcune recenti indagini, come quella di ScuolaZoo, sembra che la maggior parte degli studenti sia soddisfatta dell’esperienza di alternanza; se poi prendiamo i risultati dell’indagine Uds, che conferma una positiva valutazione da parte di più del 50 per cento degli studenti, si parla anche di gravi mancanze da parte delle scuole e delle aziende che sono impreparate a fare quanto spetta loro.
La voce di questi studenti, le loro parole non assomigliano a quello che gira nelle piazze. Ancora una volta viene da pensare che alcuni giusti motivi di perplessità su questo istituto dell’alternanza vengano usati da qualcuno e gettati nel mixer della propaganda antigovernativa, non propriamente a uso e consumo degli studenti. Prova ne sia che all’interno delle manifestazioni si sono innalzate bandiere a difesa dello ius soli, contro lo sfruttamento del tirocinio in università e che il rappresentante di Sinistra Italiana abbia già chiesto una moratoria per la legge dell’alternanza.
Perché in questo paese non è possibile discutere nel merito delle questioni? Perché i tanti punti oscuri di questa legge non possono essere sviscerati e affrontati per trovare una soluzione in vista di una sua utile applicazione all’interno del percorso didattico degli studenti? C’è ancora qualcuno che pensa che in qualche istituto tecnico o professionale ci si opponga a un periodo di alternanza all’interno di aziende che garantiscono l’acquisizione di reali competenze per gli studenti? Nessuno lo farebbe. Ma il problema è che quello che accade in alcune scuole e in alcune aziende non accade ovunque. E che dunque occorre ripensare una diversa declinazione della legge — magari, finalmente, smetterla di pensare a una legge unica e rigida per tutte le scuole del regno — così come occorre ripensare ai suoi tempi di attuazione (si può fare l’alternanza nel quarto o quinto anno durante i giorni di lezione e poi pretendere che i programmi, o persino gli esami, rimangano uguali? Si può pensare l’alternanza allo stesso modo per un liceale e uno studente di una scuola tecnica? Si possono affidare questi giovani ad aziende che non hanno neanche i minimi requisiti di affidabilità e serietà nella loro proposta di formazione?).
Nonostante alcune delle loro parole sembrino rivelare che, purtroppo, possono prestarsi ad essere voce di altri, questi studenti richiamano giustamente la necessità di ripensare la forma di un istituto come l’alternanza che presenta ben più di un problema al suo interno. Se ne discuterà davvero? Gli slogan di questi giorni sono diventati — o lo erano già — un’arma nelle mani dei sindacati per buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, e anche le parole del ministro in risposta a quanto accade non lasciano ben sperare: quando finirà questo modo di non pensare che si è impadronito della politica italiana? Quando la smetteremo di fare delle leggi perché una legge ci vuole e poi vedremo e una volta fatta non ci pensiamo più, oppure la buttiamo via e ci teniamo quello che c’è perché è meglio non cambiare che cambiare in peggio?
Fanno tenerezza questi studenti in piazza forse perché, stretti tra due fuochi, hanno ancora il coraggio di alzare la voce. Ma se la schiariscano bene e non finiscano per diventare lo strumento dell’uno o dell’altro fuoco che li vuole bruciare. Magari saranno proprio loro a insegnarci di nuovo a pensare.