A Bologna il Papa ha ricevuto il “Liber Paradisus”, un libro che ricorda come nel medioevo il comune bolognese abolì la servitù. Accadde 760 anni fa e Bologna fu la prima città in Europa a liberare degli schiavi e furono 5.855, “tantissimi, eppure Bologna non ebbe paura”. Perché avvenga il Paradiso si devono impegnare tutti: i politici ma anche chi, da schiavo, deve desiderare di essere considerato una persona, non solo una cosa. Troppo spesso si dimentica che il Paradiso, per lo meno quello cristiano, non è fatto solo da Dio ma anche dagli uomini: da quegli uomini che, per arrivare lì, hanno dovuto metterci del loro, e anche tanto. Il papa parla ai politici ma non parla solo ai politici, parla anche a coloro che devono essere liberati, accolti, accompagnati: parla cioè ai richiedenti asilo, gli schiavi dei tempi moderni.
A Cesena, al mattino, il Papa ha richiamato “la necessità, per la vita della comunità, della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali — esse infatti non sono un pozzo senza fondo ma un tesoro donatoci da Dio perché lo usiamo con rispetto e intelligenza. Una politica — ha proseguito — che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza”. A Bologna, il pomeriggio, il cerchio della “politica” si è chiuso perché lì ha dato sostanza alle belle cose che aveva detto. “La corruzione — ha ripetuto come già altre volte — è il tarlo della vocazione politica, la corruzione non lascia crescere la civiltà e il buon politico ha anche la propria croce quando vuol essere buono perché deve lasciare tante volte le sue idee personali per prendere le iniziative degli altri e armonizzarle, accomunarli perché sia bene comune, in questo senso il buon politico sente di essere un martire, diciamo così al servizio perché lascia le proprie idee, ma le mette a servizio per andare verso il bene comune”.
Non meno importante, però, è quanto il Papa dice rivolto ai richiedenti asilo. Lo dice in meno parole: ma sono parole che, dette da lui, pesano come macigni. “Vi esorto ad essere aperti alla cultura di questa città, pronti a camminare sulla strada indicata dalle leggi di questo Paese”. Perché il paradiso da costruire in terra è, come il paradiso da realizzare in Cielo, il paradiso dell’amore e della libertà a cui siamo chiamati tutti ma senza dimenticare che siamo chiamati lì uno per uno: cioè ognuno con la propria responsabilità verso la propria storia e la propria dignità. Non dimentichiamoci che gli schiavi erano sì “cose” in mano ai padroni: se utili, erano “cose” trattate senza libertà, ma trattate bene. Con cibo, casa, cura. Per questo, non di rado, gli uomini rinunciavano ad essere tali, cioè rinunciavano alla libertà, pur di avere un pasto assicurato.
Quando si esce dalla schiavitù, come accadde al popolo ebraico quando uscì dall’Egitto, si viene chiamati a lasciare la sicurezza del cibo (Numeri, 11) e a decidere da soli chi si è, dove andare e perché. Sotto il faraone la vita era terribile ma aveva il tranquillizzante aspetto della certezza, la forma regolare delle piramidi da costruire, le giornate scandite dai mattoni da mettere l’uno sull’altro. La libertà ha l’aspetto vertiginoso del deserto, di un mare diviso in due da grandi muraglie da traversare.
Essere liberi significa prendere in mano la propria vita, ma essere liberi non è facile. Questo il Papa ricorda a migranti e rifugiati quando dice loro che hanno diritto ad essere accolti “ma nel rispetto delle leggi”. È la sfida, l’unica, che l’amore vero chiede di affrontare: essere è divenire se stessi riconoscendo ai fratelli la medesima dignità, il medesimo diritto, il medesimo dovere.