Bisogna sempre parlare a ragion veduta prima di imbastire le solite morali: ieri un pezzo di capitello si è staccato all’altezza della terza cappella gentilizia nel transetto di destra della Basilica di Santa Croce, e cadendo dall’altezza di 30 metri ha colpito un turista spagnolo uccidendolo. Siamo nel cuore di uno dei monumenti più belli e celebri di Firenze. Un monumento profondamente ferito dall’alluvione del 1966 che aveva irrimediabilmente violato quel capolavoro che è la Croce di Cimabue. È un monumento visitato da migliaia di persone ogni giorno, gestito dall’Opera di Santa Croce e sottoposto ad “un piano pluriennale di manutenzione, restauro e prevenzione, fatto anche in collaborazione con la Protezione civile” come ha spiegato ieri la presidente dell’ente Irene Sanesi.
Per capire come e perché è successo ci vorrà tempo. Capire se c’è stata una sottovalutazione o invece è stata soprattutto una fatalità. Aspettiamo prima di emettere sentenze. Certo quello che accaduto ieri rappresenta un fatto drammatico sul piano dei fatti — un turista rimasto ucciso — e sul piano simbolico. È una ferita che suona come un monito, non tanto per farci prendere dai soliti raptus catastrofisti, ma per capire quanto sia fragile l’enorme patrimonio che fa dell’Italia un paese senza pari al mondo. La fragilità è un fattore ineliminabile, figlia del tempo che passa, dello stress a cui comunque questi tesori si trovano necessariamente sottoposti. Il patrimonio italiano è immenso per qualità e per quantità. È un patrimonio che per sua natura non può essere “chiuso”. È bene comune, per tutti, anche per i turisti di questo mondo globalizzato.
Nella stragrande maggioranza dei casi questo patrimonio è anche conservato e custodito con competenza, spesso anche con amore e orgoglio. Certo non mancano tanti episodi di incuria, ma sarebbe far torto al nostro paese non riconoscere quanto negli anni è stato fatto per conservare e valorizzare migliaia di monumenti grandi e piccoli. Tuttavia se una cosa insegna quanto accaduto ieri a Firenze proprio davanti alle cappelle che custodiscono due capolavori di Giotto, è che dobbiamo amare di più ciò che il passato ci ha regalato. Amare significa conoscere e rispettare. Significa capire che la bellezza che abbiamo attorno e che rende così speciali le nostre città è una bellezza fragile. Che chiede cura come tutte le cose fragili e preziose che incontriamo nella vita. Per questo cura vuol dire anche risorse. Vuole dire anche investimento in capitale umano, preparato proprio per garantire questo patrimonio alle generazioni che verranno. Su questo l’Italia di oggi è in debito verso se stessa e la sua storia.