Si chiama Faraj Bayrakdar ed è un grande poeta siriano. Peccato che nel suo Paese, per godere della delicatezza dei suoi versi, abbiano dovuto attendere molti anni. Era stato lui stesso ad impartire l’ordine alla sua famiglia: quei componimenti dovevano restare privati. Il rischio concreto era che i suoi concetti, essendo uomo avverso al regime di Assad, gli costassero. E alla fine così è stato, se è vero che Bayrakdar, classe 1951, ha trascorso in prigione 14 anni, dal 1987 al 2000. La bellezza, però, si è fatta strada: e dal “luogo stretto”, che è anche il titolo della sua prima raccolta apparsa in Italia, si è passati addirittura alla traduzione in francese. Questa sera, come riporta L’Avvenire, Bayrakdar – che dal 2005 vive a Stoccolma – sarà a Vercelli per ritirare un premio di poesia. Oggi a quella pubblicazione a sua insaputa guarda con gratitudine:”A distanza di tempo devo ammettere che fu un bene, perché quelle poesie diedero il via alla campagna di solidarietà nei miei confronti. Se oggi sono un uomo libero, lo devo a un libro pubblicato contro la mia volontà“.
“DIO ERA IN PRIGIONE”
Ad emergere in maniera preponderante dal racconto di Faraj Bayrakdar a L’Avvenire è l’aspetto religioso della sua prigionia:”In alcune poesie ho dato voce alla mia interiorità di uomo non religioso, in altre ho riportato i sentimenti e le espressioni dei miei compagni di prigionia. Molti di loro invocavano Dio sotto tortura e non era raro che perfino i non credenti, nei momenti in cui il dolore si faceva intollerabile, avvertissero la necessità di questa invocazione. E sì, c’era anche chi malediceva. Che pregassero o inveissero, tutti cercavano qualcosa di più grande, capace di metterli al riparo dall’obbrobrio. Questa ricerca trova eco nei miei versi attraverso espressioni che provengono dalle diverse tradizione religiose del Medio Oriente: l’islam, l’ebraismo, il cristianesimo. Un verso come “Dio ha chiuso gli occhi” è inconcepibile per un musulmano, ma mi pare che rappresenti in modo molto efficace lo sgomento di chi si ritrova senza difese“.
LA DONNA COME SALVEZZA
Il siriano Faraj Bayrakdar nei suoi componimenti dà ampio spazio alla figura della donna. Il perché di questa scelta lo ha spiegato a L’Avvenire:”Il carcere è come un’isola, un mondo a sé, privo di contatti con l’esterno. Un’isola di soli uomini, nel mio caso, ed è proprio l’assenza di donne che porta a riconsiderare l’elemento femminile in tutta la sua ricchezza sentimentale, emotiva e, in definitiva, simbolica. La donna diventa l’immagine di pietà per eccellenza, la manifestazione più pura della misericordia. Perfino al termine dell’interrogatorio più brutale, c’è sempre un’infermiera che ti viene in soccorso come una madre, come una sorella, forse come un angelo. Basta un suo sguardo per far evadere il detenuto, fosse anche per un unico istante. È una sensazione che ho provato a sintetizzare in un verso: “C’è solo lei in questa assenza”. In carcere la donna appare come voce oppure come ombra, in una dimensione solenne, di santità“.