Inimmaginabile, inspiegabile. La foto di tre bambine sorridenti sul balcone di casa affacciato sullo splendido panorama del lago di Como, sembra rimarcare proprio incredulità e profondo sgomento di fronte al tragico incendio che venerdì mattina ha inghiottito una famiglia, spento per sempre i sorrisi, le voci, i giorni futuri. Il padre, Faycal Haitot, 49 anni, cittadino italiano di origine marocchina, è stato trovato senza vita nell’appartamento che lui stesso pare abbia trasformato in un indomabile rogo che non ha lasciato scampo neppure ai suoi figli. Tre di loro, un ragazzino di 11 anni e due bambine di 7 e 3 anni, sono deceduti poche ore dopo il trasferimento d’urgenza in diversi ospedali, mentre la bimba di 5 anni, ieri pomeriggio trasferita in gravissime condizioni all’ospedale Buzzi di Milano, è morta in serata.
Unica superstite la madre, negli ultimi tempi ricoverata in una struttura per problemi psichiatrici, che ieri era presente accanto alle salme delle sue due bambine nella camera ardente dell’ospedale che le ha accolte. Impossibili le parole, anche il pensiero si paralizza quando il dolore sembra sovrastare, calpestare ogni brandello di immaginazione, raggelare il sentimento.
Eppure torna ad affiorare prepotente l’interrogativo sul senso di tutto, sul senso dei sogni spezzati quasi sul nascere in certe vite, in certe storie pesanti di contraddizioni e di disagio. In questa vicenda l’intreccio di problemi non sembra adattabile a un cliché già prefigurato, scontato: non sembrerebbe automatico e realistico disegnare il disadattamento e la disperazione che ha tragicamente attanagliato la vita del nucleo famigliare di immigrati connettendolo unicamente a un’indifferenza diffusa, generale, sorda, del contesto sociale. Come è emerso da alcune testimonianze, voci raccolte casualmente fra volti provati da senso di impotenza, la famiglia di Faycal Haitot era inserita in un contesto di relazioni, abitava in un appartamento decoroso assegnatole grazie al supporto di una fondazione benefica che agevola famiglie in difficoltà, ed era supportata dai servizi sociali del comune di Como anche per l’affronto dei problemi generati dalla malattia psichica della mamma. Fra le tante parole di cordoglio, quelle del vescovo di Como Oscar Cantoni sembrano confermare un contesto di prossimità: “Sono persone che sentiamo come a noi familiari: nella parrocchia di Monte Olimpino avevano trovato un aiuto fondamentale attraverso la fraternità di tanti volontari” ha ricordato, parlando di “tragedia che ha toccato profondamente la comunità”.
Certamente è sempre poco, sempre un nulla la solidarietà che difficilmente riesce a tappare tutte le falle di un bisogno emergente, grave e urgente come quello di una famiglia messa alla prova — possiamo immaginare — dalla lontananza a volte incolmabile dal proprio Paese, dalle culture originali, dalle abitudini radicate, dalle prospettive di una realizzazione vagheggiata e annegata nella delusione. Si è aggiunta la malattia psichica della madre a rendere ancora più profonda la distanza fra aspirazioni e realtà concreta. Una realtà troppo buia, angosciosa, carica di disorientamento… irraggiungibile, forse di dimensioni troppo vaste e debordanti rispetto ai tentativi di risposta, alle iniziative sociali, ai concreti gesti di condivisione, sempre esigui se confrontati alla voragine di bisogni e paure. Problemi che sono diventati insopportabili, soffocanti nella quotidianità sempre più tetra che neppure il sorriso e le attese dei bambini sono riusciti a rischiarare.
Ed è questo divario che, a ben vedere, sovente incombe sulla vita, sulle nostre vite che spesso appaiono davvero troppo incerte e sventurate rispetto al desiderio di pienezza e felicità cui aspirano, a suscitare una implacabile inquietudine. E ad accendere una nuova domanda sul bisogno dell’uomo sempre abissale, indecifrabile, non pianificabile. Soprattutto sempre carico di un’esigenza sfuggente, forse sottovalutata, a volte persino censurata, che ci riporta a guardare il disagio dell’altro, la sua mancanza di lavoro, di tetto, di cibo, di salute come il segno di un’indigenza più radicale che le comprende tutte: una sete di senso e di speranza che, dimenticata e disattesa, a volte produce una tragica follia.