Sorprende leggere di uno psicoterapeuta, nonché scrittore, saggista e pensatore, omosessuale che “difende” la famiglia naturale ed eterosessuale. Abbiamo estremizzato le conseguenze, chiaramente, ma questo è il frutto di chi nel suo lavoro e nella realtà davanti non omette problematiche e criticità “solo” per elementi che disturberebbero il proprio quadro di pensiero e di comportamento. Claudio Risè ha avuto infatti il coraggio di scrivere, lo scorso 18 ottobre su Il Giornale, qualcosa che nessuno nel mainstream gayfriendly di questi tempi ha avuto la sincerità nel dirlo. «Ma siamo così sicuri che i figli delle coppie gay crescano felici e spensierati?», spiega Risè analizzando da vicino lo studio “Omogenitorialità, filiazione e dintorni”, un’analisi critica delle ricerche della psicologa Elena Canzi, ricercatrice del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell’ Università Cattolica di Milano, presentato da Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli (Vita e pensiero, pagg. 144, euro 15). I dati infatti vanno in “leggero” contrasto con quello che ormai è obbligatorio sostenere a meno di non essere tacciato di omofobia-sessismo-razzismo e chi più ne ha ne metta. Risè compie un’analisi semplice e allo stesso tempo non banale anche dal punto di vista scientifico e psicologico: «Come crescono i bimbi delle coppie omosessuali? Ottimamente, ci hanno assicurato i media in questi anni. Comunque molto meglio di quelli cresciuti in coppie etero, hanno ribadito esperti molto zelanti e terapeuti politicamente impegnati. Qualche intervistato più cauto ha provato a obiettare, ma chissà come mai il collegamento radiofonico improvvisamente cadeva, tra scuse biascicate velocemente dall’ intervistatore. Andava tutto veramente così bene?», si chiede semi-ironico lo psicoterapeuta (omosessuale dichiarato da anni).
CRESCERE “IN TEMPO”
Risè lo chiama ”pregiudizio ottimistico del discorso sull’omogenitorialità”, e riguarda esattamente quanto dicevamo prima. In virtù di questo “pregiudizio” imposto dal mainstream attuale, qualsiasi critica o dubbio mosso contro quella modalità di giudicare la “bellezza dell’essere figli di coppie gay” viene tacciata di essere omofoba, e quant’altro. Lo psicoterapeuta infatti rilancia spiegando come la categoria del tempo è la grande protagonista “dimenticata” dal mainstream: «il tempo. Aspetto decisivo nella vita, grande sfida alla maggior parte degli studi socio-psicologici, e che si capiva essere ben poco considerato in gran parte di questi lavori. Quanto un bambino sia stato bene o no in una famiglia lo capisci nel tempo. E in queste ricerche di tempo osservato ce n’ era ben poco, anche per l’ assoluta novità del fenomeno. Di solito pochi anni, mentre i problemi escono, per solito, nel corso dell’ adolescenza e anche molto dopo». Secondo Risè, non bisogna avere la fretta di voler dimostrare qualcosa che confermi la propria idea iniziale o la propria teoria: su un tema così delicato soprattutto e dove in gioco ci sono sentimenti, educazione e ultimamente “persone” non bisognerebbe arrivare a conclusioni “rapide” e non complete.
LO STUDIO
Il testo analizzato da Risè nel suo lungo articolo su Il Giornale prende spunto proprio da questa costante del tempo e dai tanti errori fatti negli anni nello studiare il fenomeno dell’omogenitorialità. «Il testo offre con metodo e precisione un’ampia selezione degli studi che rispondevano almeno ai requisiti indispensabili agli standard base nella ricerca psico-sociologica. I campioni rimangono abbastanza ridotti, e soprattutto nella raccolta delle informazioni sembrano spesso prevalenti quelle fornite volontariamente dai genitori rispetto a quelle risultanti da dati accertati da strumenti neutrali», attacca Risè mostrando nel dettaglio i problemi legati alle pseudo-ricerche passate. «È naturale che i genitori siano impegnati a dimostrare la positività del loro operato, tanto più in un tipo di filiazione anche antropologicamente nuovo, di cui essi stessi sono stati inventori, esecutori e, in queste ricerche, anche informatori e infine giudici dei risultati», spiega Risè affermando come però, per avallare questo tipo di spunto positivo dei genitori omosessuali spesso non si vanno a giudicare quali sono i veri problemi e criticità presenti. L’elemento positivo dello studio nato dall’Università Cattolica, spiega lo psicoterapeuta, è proprio nell’ampio respiro scientifico a 360 gradi su tutte le criticità presenti nelle vicende e casi di genitori gay con figli.
LA CRISI DEL 28ESIMO ANNO
«Come sempre nell’esistenza umana, che ha un tempo limitato tra un inizio e una fine, è proprio il tempo a fornire i dati più critici. È infatti all’ età media di 28 anni, all’ inizio del quarto settennio, quando è definitivamente conclusa la fase per certi versi eroica dell’infanzia-adolescenza e si entra nella maturità, che compaiono in questi figli i più problematici (finora) segni di difficoltà»: non più la crisi del settimo anno, ma del ventottesimo (scherziamo ovviamente). I segni di forte criticità mostrati dallo studio scientifico e dallo stesso Risè sono evidenti: «Si tratta del disturbo caratteristico di tutta la nostra epoca, quello depressivo, la cui incidenza «cresce in modo esponenziale dal 18% in adolescenza al 51% in età adulta, mentre nel gruppo di figli di coppie eterosessuali diminuisce nel tempo di due punti percentuali con un valore in età adulta pari al 20%». Depressione e disturbo-deficit di attenzione sono dei tratti che non andrebbero lasciati in secondo piano: purtroppo però, per “fretta” di arrivare ad una conclusione “positiva” le varie ricerche e studi di questi anni hanno tentato di lasciare in chiaroscuro questo tratto di difficoltà che invece c’è, esiste e non sarebbe da sottovalutare.
«Difficoltà nel conseguimento di diplomi scolastici, assunzione di cannabis e altre droghe, problemi emotivi. Tutti fenomeni rilevati anche in questi studi, ma spesso con commenti per nulla preoccupati, mentre nell’osservazione socio-psicologica risultano accompagnare per solito vite non proprio felici, e molteplici difficoltà»: spesso, spiega Risè, si insiste sulla poca aggressività di questi bambini e sulla loro apertura mentale, in particolare riguardo all’orientamento sessuale. «È certamente un bene. Ma nelle analisi più qualitative ciò appare spesso come un impegno nella difesa dei genitori da aggressioni dall’esterno. Sappiamo però come l’atteggiamento «genitoriale» dei figli verso i genitori costi poi loro in mancanza di spontaneità, stanchezze emotive, depressioni», conclude lo psicoterapeuta. L’esempio finale potrebbe divenire un “manifesto” di queste criticità nascoste dall’opinione pubblica a riguardo dell’omogenitorialità – che non va per nulla demonizzata, ma va trattata come un elemento complesso, critico e su cui poter discutere senza il rischio di essere “silenziati”: «Nelle coppie di lesbiche, la più amata è la madre naturale, non quella «sociale». La cosa, però, non crea solo sofferenze alla madre sociale ma anche problemi nella coppia, oltre che imbarazzo ai bambini. L’ altra, raccontano loro, è una «mom». Mommy è quella che mi ha messo al mondo».