Di Licio Gelli si continua a discutere anche da morto. L’ex gran maestro della P2, condannato per depistaggio delle indagini delle stragi di Bologna, dev’essere considerato alla stregua di un capomafia? La sua figura è paragonabile a quella di stragisti come Totò Riina e Bernardo Provenzano? Non secondo il tribunale di Arezzo (presidente Fruganti, giudici a latere Avila e Lombardo), che ha respinto la richiesta di confisca di Villa Wanda, storica dimora del faccendiere toscano, avanzata dall’allora questore Enrico Moja subito dopo la morte di Gelli. A fare propria la richiesta di Moja era stato in seguito il procuratore Roberto Rossi, che aveva chiesto al tribunale la misura di prevenzione a carico di persone pericolose anche se defunte. Un provvedimento motivato da procura e questura dal fatto che Gelli avesse svolto in vita un ruolo “socialmente pericoloso”.
LICIO GELLI E LA BATTAGLIA LEGALE
Non è bastato, però, il dossier messo insieme dall’allora questore Enrico Moja, che avviò la pratica nel 2016, per convincere il presidente Fruganti ad autorizzare la confisca di Villa Wanda, a far sì che la residenza del P2ista diventasse un bene dello Stato, come avviene ad esempio con le dimore dei mafiosi. L’ex capo della Questura aveva allegato alla documentazione la situazione patrimoniale dei Gelli, confezionata dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, riepilogando peraltro tutte le malefatte (vere o presunte) e i guai giudiziari del Venerabile, dalla P2 al Banco Ambrosiano, dalle fughe all’estero ai lingotti d’oro ritrovati proprio a Villa Wanda. L’obiettivo era dimostrare che Gelli fosse “abitualmente dedito a traffici delittuosi”, ma così non è stato secondo i giudici. Villa Wanda resterà in uso agli eredi, presenti in massa alla lettura della sentenza, come riporta La Nazione. Quella villa ottocentesca sulle colline d’Arezzo non verrà data in dote alla comunità: i giudici hanno deciso, il marchio di Gelli tatuato per sempre.