Il fotomontaggio di Anna Frank con la maglia di una squadra di calcio e l’accusa diretta ai tifosi chiamati in causa di essere altrettanti ebrei, ha scosso molti. Per di più, alla stupida sconcezza del gesto, dopo la forte serie di proteste che hanno attraversato l’Italia, si è sommata la reazione ancora più improvvida degli autori che ne sono stati protagonisti: costoro si sono mostrati stupiti del clamore suscitato e hanno colto l’occasione per far notare che, quando erano loro a finire sotto il tiro di sfottò umilianti, nessuno si indignava. A loro avviso non si è trattato che di una bravata che qualcuno avrà potuto trovare scandalosa, ma nella quale il termine di “ebreo” indirizzato al tifoso della squadra avversaria non è che un epiteto banale, equiparabile alle altre decine di insulti a disposizione nel normale vocabolario degli sfottò tra tifoserie.
Un tale fatto può essere archiviato come l’ennesima scomposta reazione del tifo estremo, dissacrante e indecente, opera di pochi da condannare ed isolare. Ma può anche essere la punta di una ben più diffusa attitudine alla dissacrazione, un’attitudine che porta ad irridere di tutto e di tutti ed a liquidare ciò che non è archiviabile, a rimuovere ciò che non può essere rimosso. Sotto quest’aspetto merita una riflessione che va al di là della critica al becero antisemitismo del quale pure dà prova.
La superficialità contemporanea che, ritenendo che l’avere usato un’icona dell’innocenza e della tragedia per uno sfottò tra squadre sia solo una questione di cattivo gusto, non riesce a vedere l’ampiezza di ciò che è accaduto nella prima metà del secolo scorso, sottodimensionando il baratro che si è scavato. Chi vede in quel triste e sconvolgente fotomontaggio solo e semplicemente un gesto di sciocca balordaggine è forse tra i primi a rimuovere l’ampiezza di questo baratro e quindi a perderlo di vista.
Di fatto il personaggio di Anna Frank è stato qui oggetto oltre che di una provocazione, di una sostanziale profanazione, come può esserlo la figura di ogni defunto. Si è infatti offesa la memoria di un’innocente che riassume in sé una tragedia nella tragedia. Anna Frank rappresenta l’epicentro di un orrore senza fine dal quale non siamo più usciti, perché dopo Auschwitz e gli altri lager, nessuno di noi è più come prima. Perché dopo l’orrore dei pogrom e delle pulizie etniche, il massacro di intere popolazioni cancellate dai regimi totalitari, è l’orgogliosa superficialità dell’idea stessa di progresso fatta propria dall’Illuminismo a discreditarsi ed a farci uscire dal ventesimo secolo a capo chino.
Il fatto che un’icona dell’innocenza come Anna Frank — e le decine di migliaia di altre Anne che non conosciamo — possa semplicemente non essere riconosciuta per quella che è e, proprio per questo, possa essere fatta entrare nel teatro della comunicazione mediatica alla pari di ogni altra immagine nota, riducendola così ad un gadget per i tradizionali scambi di insulti tra opposte tifoserie, significa semplicemente ignorare l’olocausto come evento epocale per ridurlo a fatto storico pari a tanti altri che lo hanno preceduto e che vi hanno fatto seguito.
La dissacrazione della memoria di una ragazza di sedici anni, il suo utilizzo per una becera goliardata, serve alla messa tra parentesi di un tale orrore, e costituisce, proprio per questo, un vero e proprio segnale d’allarme. L’allarme per una società nella quale la memoria non ha che valore d’archivio, mentre ha perso la funzione che dovrebbe avere: quella della testimonianza di un orrore del quale possiamo essere ancora capaci. Nel caso di Anna Frank e dei milioni di persone innocenti si tratta di un orrore infinito e senza perdono perché, come ha suggerito Hannah Arendt, “ci sono peccati che non si possono vendicare, né punire, né perdonare”.
La crocifissione dell’innocenza non può essere sdoganata e sciolta nella modernità euforica del calderone mediatico. Non si tratta solo di condannare l’antisemitismo, si tratta anche e soprattutto di non tollerare l’alienazione della ragione nella quale ricade la sconvolgente leggerezza con la quale la società contemporanea rimuove le proprie tragedie e della quale gli autori della profanazione non sono che la punta dell’iceberg e gli stolti realizzatori.