Un sussidiario per le scuole primarie, un tempo dette elementari, ha usato la parola “clandestini” per definire quei migranti che sono entrati senza avere le carte in regola, sono migranti illegali, irregolari. Gli autori del testo hanno scritto invece “clandestini”.

E’ una parola offensiva, squalificante? Offende la dignità delle persone? Discriminatoria, dunque costituisce un reato poiché diffonde odio? In realtà, in sé e per sé, non dovrebbe essere così. Se fosse un reato adoperare questa parola sarebbe la legge a essere fuorilegge. In Italia esiste infatti il reato di “immigrazione clandestina”. In questo momento ci sono responsabili di Ong indagati per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Dunque a rigore di grammatica e di logica, esistono anche i clandestini. Come, esistendo il reato di furto, esistono i ladri e i derubati, senza che nessuno possa mai essere ridotto a un aggettivo: neppure un omicida.  



Ancora, dire “clandestino” è infamante come in America usare “nigger” per definire gli afro-americani? Ho usato troppi punti interrogativi, e di solito gli articoli servono a dare risposte, non a porre domande. Il problema è che mi vengono risposte diverse.

In una serena discussione telefonica con l’autorevole responsabile di un giornale di proprietà episcopale ho usato questa espressione “clandestino” e sono stato redarguito: si deve dire irregolare, mi ha detto. L’ho pregato di non scivolare in un nominalismo sterile. Clandestino è una condizione oggettiva, uno status, non l’essenza di una persona. E’ chi attraversa i confini senza rispettare le leggi di quel Paese e vi permane. Irregolare è chi magari ha un visto turistico, ma lo fa scadere e non si fa presente all’autorità. Dare questa definizione giuridica significa offendere o dare un nome alle cose?



L’ideale è chiamare le persone per nome. Anche coloro che sono salvati per mare (e si deve salvarli e accoglierli) qualora non abbiano margine per ottenere asilo politico od umanitario, in quanto in fuga da persecuzioni, guerre o carestie conclamate, sono destinati al rimpatrio. Come li chiamiamo: i rimpatriabili?  

Ora trascrivo il testo completo (e incriminato in particolare dall’ex sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini) di questo sussidiario, edizione “Il capitello”:

“(In Italia), è aumentata la presenza di stranieri provenienti soprattutto dai paesi asiatici e dal Nordafrica. Molti vengono accolti nei centri di assistenza per i profughi e sono clandestini, cioè la loro permanenza in Italia non è autorizzata dalla legge. Nelle nostre città gli immigrati vivono spesso in condizioni precarie: non trovano un lavoro, seppure umile e pesante, né case dignitose. Perciò la loro integrazione è difficile: per motivi economici e sociali, i residenti talvolta li considerano una minaccia per il proprio benessere e manifestano intolleranza nei loro confronti”.



La frase è in effetti ambigua, confonde i termini: profughi e clandestini. Dunque è sbagliata. Andrebbe riscritta. Ma da qui a suscitare un caso nazionale ci vuole una certa esagerata predisposizione allo scandalo. In realtà la seconda frase, imprecisa, potrebbe funzionare se scritta così: “Molti (stranieri) vengono accolti nei centri di prima accoglienza in attesa che si riconosca il loro diritto a restare in Italia come profughi, oppure glielo si neghi per rimpatriarli quali migranti irregolari o clandestini”. 

Sono certo che molti avrebbero comunque da ridire. L’unica cosa che mi sentirei di introdurre da qualche parte, nel testo ma soprattutto nell’animo dei bambini, è che siamo tutti fratelli, ma in Italia non c’è posto per tutti i cinquecento milioni di africani e l’identico numero di asiatici che se potessero attraverserebbero il Mediterraneo chiedendo accoglienza.