NEW YORK — Le prime breaking news sono arrivate verso le 2 e mezza del mattino. Mi dovevo esser addormentato da poco perché ho sentito il telefono vibrare, ma l’ho ignorato. Cosi solo questa mattina ho cominciato a capire quel che era successo. Capire ….cosa si può capire? Cosa ci dice il fatto che un uomo si rinchiuda in una stanza di albergo con una decina di armi automatiche e decida di riversare una valanga di fuoco su un mondo di sconosciuti rubando decine di vite? No, non è terrorismo, almeno così sembra, checché ne possa aver detto Isis. Più passano le ore più quell’ipotesi impallidisce. Il paese è scosso, ma se fosse terrorismo sarebbe in preda all’angoscia. Il presidente ha voluto parlare alla nazione. Un messaggio breve, dignitoso, pacato, ma necessariamente rivolto alla speranza. Un messaggio di lutto e speranza che diventa un accorato invito all’unità.
Il paese, ha detto, si ritrova unito nella tristezza, nel dolore e nella preghiera. Che non sia la rabbia a definirci, ma il nostro amore. Basta un raggio di speranza ad illuminare anche l’ora più buia. E che Dio ci benedica, ci benedica tutti, vivi e morti perché contro un atto di “pure evil”, di male nudo e crudo ci vuole l’aiuto di Dio.
Non c’è molto altro da dire, e più in là di lì Trump non va. Anche perché fino a ieri l’unità pareva essergli un concetto ostile, ed anche perché a tutt’ora si sa pochissimo di quello che è successo. Stephen Paddock, il sessantaquattrenne autore del più tragico mass shooting nella storia d’America, l’omicida che pare essersi tolto la vita appena prima che la polizia facesse irruzione nella stanza al 32esimo piano del Mandalay Bay Resort, non era mai andato oltre qualche infrazione stradale. Suo padre sì che era stato un criminale, un rapinatore, ma lui no. Se ne viveva da benestante a Mesquite in uno di quei villaggi per pensionati di un certo livello, con piscine e campi da golf non lontano da Las Vegas. Una ex moglie, forse una compagna, niente figli.
Las Vegas è certamente uno di quei posti dove si può crepare di solitudine mentre sei costantemente circondato da gente. Una delle città più fasulle e tristi del mondo nello sfavillare della sua “strip”, tra casinò dove non esistono la notte e il giorno ed una finta Venezia, una finta New York, una finta Parigi …un mondo tutto finto, ma fasullo non perché fa il verso a quello vero, ma perché avrebbe la pretesa di liberarci da pensieri, preoccupazioni e domande. Ma questa volta per decine di migliaia non basteranno le note di un concerto country o una slot machine a rimuovere il ricordo di ieri sera. Perché è qui, in questa striscia di luci e colori che taglia il Mojave desert che un uomo ancora una volta ha deciso di spendere la sua vita per rubare quella di altri. Come a Orlando, a San Bernardino, Colorado Springs, Roseburg, Chattanooga, Charleston, Marysville, Isla Vista, Killeen, Newtown, Aurora… le sparatorie, i mass shootings saranno stati quaranta e più dal massacro di Columbine del 1999. Tanti che non siamo neanche in grado di ricordarceli. Terrorismo, razzismo o pura follia, la differenza c’è, ma il sangue innocente è lo stesso.
E adesso? Adesso, mentre il numero di morti e feriti continua a salire si infiammerà di nuovo il dibattito sul porto d’armi, si cercherà di capire come sia possibile che un uomo possa realizzare il suo folle progetto portandosi dentro una stanza d’albergo una tonnellata di armi.
Ed inevitabilmente si cercherà di dimenticare. Speriamo che Las Vegas non diventi la nuova Nashville di Robert Altman, dove basta che qualcuno raccolga il microfono ed attacchi a cantare mentre si sgombra il palco da morti e feriti. Così che lo spettacolo possa continuare facendoci scrollare di dosso i brutti pensieri.
Sarà stato un folle. E se pazzia è, “Che cos’è un matto?”, scrive Paulo Coelho, “…questa volta ti risponderò senza giri di parole: la follia è l’incapacità di comunicare le tue idee. È come se tu fossi in un paese straniero: vedi tutto, comprendi tutto quello che succede intorno a te, ma sei incapace di spiegarti e di essere aiutato, perché non capisci la lingua”.
La follia della solitudine è una malattia contagiosa. Il riconoscimento dell’unità è l’unico antidoto.