ATTENTATO LAS VEGAS. A Las Vegas un pensionato di sessantaquattro anni ha pianificato e messo in opera la sua personale vendetta contro il mondo, dando sfogo contemporaneamente al suo desiderio di onnipotenza. Avendo deciso una condanna di morte per tutti, si è organizzato al meglio: ha individuato il luogo dell’esecuzione, ha scelto le armi e il momento dell’intervento. Le vittime dovevano essere rigorosamente anonime, colte da lontano, sorprese nel momento della festa e dell’allegria. La folla di un concerto di musica country, nella sua indistinzione di ruoli, generi e razze, unita solo da un desiderio di distensione e di allegria, si è rivelata essere la preda ideale. Chi vuole vendicarsi contro il mondo lo identifica proprio con questa letizia che la musica sembra produrre e la folla garantire, nel momento più pacifico e sereno della vita ordinaria: quello di una domenica di fine estate.
Il Male radicale, assoluto e beffardo, ha pertanto manifestato sé stesso, senza bisogno di giustificazioni e di marginalità sociali. Nell’anonimato anche l’assassino, che sceglie di farsi trovare morto proprio perché non ha nulla da dire. Poter uccidere a distanza senza dover distinguere tra le persone, vuol dire colpire il genere umano nella sua indisponente e irritante felicità. Le vittime avevano la colpa di esistere nella loro letizia e di anticipare quella “domenica senza tramonto” che è massimamente detestata da chi non ama che le tenebre del proprio rancore.
Non so come sia fatto il demonio, ma è ovvio che odi il mondo, l’umanità ordinaria, la stessa che il falegname di Nazareth invece amava e radunava, per riappacificare e predicare la certezza di un abbraccio radicale, dal quale nessuno sarebbe stato escluso se non il demonio stesso e i suoi sodali, che odiano l’umano e non perdonano, non tollerano questa letizia piena, questa felicità senza rancori, a Las Vegas come a Nizza, come a Parigi.
A Las Vegas, assieme alle vittime — da abbracciare tutti, pregando che dove non arrivino le nostre braccia giungano quelle del Padre — è stata definitivamente seppellita la logica raziocinante di un principio di causalità che, riconducendo il male alle cause che lo producono, sperava di neutralizzare il primo rimuovendo le seconde. Pia illusione: non c’era nulla da rimuovere in Stephen Paddock se non il male che si portava dentro ed al quale ha consapevolmente obbedito, eseguendone gli ordini.
Chi come me è cresciuto nella certezza tutta moderna di un rapporto tra cause e effetti, di un legame tra la rabbia e le ragioni che l’hanno prodotta (ingiustamente o meno è un altro discorso) deve adesso apprendere il volto demoniaco di un male che non ha bisogno di giustificarsi, di una malvagità radicale senza spiegazioni, che può allignare anche in vite per nulla emarginate, né impoverite dalla crisi. Il male odia la letizia, detesta che si possa amare la vita, questa nostra semplice eppure meravigliosa esistenza.
Ma paradossalmente è proprio questa radicalità del male assoluto a svelarcene il volto che si cela, sempre e ovunque, dietro ogni azione violenta, anche quando si ammanta di giustizia. Lo stato islamico si è precipitato — a ragione — a mettere il cappello sulla scena del crimine: chi odia la vita riconosce per istinto il proprio confratello, sparviero di morte. Il fucilatore di Las Vegas, esattamente come lo sventratore di Marsiglia, il camionista folle di Nizza, o gli psicopatici di Londra, salgono sull’autobus dell’Isis (o vi vengono arruolati post mortem), sposando una causa omicida che hanno ignorato fino a pochi mesi prima, ma che adesso può tornare utile per autorizzare lo sfogo di quell’odio verso il mondo e le donne che ne costituiscono la fonte di vita. È il male nella sua intima disumanità, a manifestarsi senza ragioni. Non ne ha mai avuto bisogno.