Dopo il no di ben sette famiglie, una neonata affetta da sindrome di Down, in osservanza alle disposizioni speciali definite dalla legge 184 del 1983, è stata data in adozione dal Tribunale dei Minori di Napoli ad un single che aveva espressamente manifestato la propria disponibilità ad accogliere un bambino disabile senza porre alcuna condizione. 



Il fatto, eccezionale, riaccende d’un tratto i riflettori sul tema dell’adozione e del soggetto idoneo a questo istituto giuridico. Da un lato non sono pochi coloro che ravvedono in simili decisioni l’anticamera di un’apertura alla possibilità di adottare per i single e per le coppie omosessuali, dall’altro sono altrettanti quelli che difendono la necessità per un bambino di essere cresciuto da un padre ed una madre, all’interno di un vincolo stabile di vita come quello prodotto dal consenso matrimoniale. 



Come sempre, se si cerca di capire chi ha ragione, ci si imbatte in luci ed ombre. Occorre provare a guardare la cosa da un altro punto di vista e porsi una domanda molto più semplice: di che cosa ha bisogno un bimbo o una bimba per crescere? Se si osserva attentamente la realtà delle famiglie si capisce subito che un neonato per crescere non ha bisogno di amore inteso come affetto, come cura, protezione e attenzione. Troppi ragazzi e ragazze, giunti nell’età dell’adolescenza, sono vittime dell’amore dei loro genitori: un amore che impedisce di sbagliare, di fallire, di percepire tutto il vuoto e la responsabilità che c’è nella vita. La retorica che vuole affidare i bambini a coloro che li possono amare, indipendentemente dal fatto di essere coppia o single, etero o omosessuali, non regge e non dura. Nessuno cresce perché è amato, ma — e la differenza è sottile e sostanziale — perché si sente amato. 



Qui, allora, affiora il secondo motivo che la vulgata comune vorrebbe essere decisivo nei procedimenti di adozione: affidare i bambini a chi li vuole. Ma solo l’ipocrisia può impedire di vedere che dietro le tante decisioni di “volere un bambino” si nascondono in realtà storie di frustrazione e di riscatto, storie di compensazione affettiva o di chi — e qui il tono non può che farsi desolato — ritiene che aver avuto un cane o un gatto sia stata l’opportuna prova generale per poter poi ottenere, in qualche modo, un figlio. Se l’amore rischia di essere la giustificazione più nobile per invadere la vita di una piccola creatura, il desiderio di un pargolo maschera una contesa — sotterranea ma aspra — con se stessi, un insoluto che non può risolversi ai danni di un piccolo uomo. I figli non si accolgono quando li si ama, e neppure quando li si vuole. 

Qualcuno, allora, sostiene che la condizione necessaria per allevare un figlio sia il fatto di “poterselo permettere”. Le condizioni economiche e civili diventano il paravento di una responsabilità che è conseguente a quella di chi pretende di sposarsi con casa, lavoro e paracadute sociale pronti. I grandi padri e le grandi madri del passato, tuttavia, non sono stati coloro che hanno saputo garantire le condizioni migliori di crescita ai propri infanti, altrimenti — per assurdo — la prole dei nobili o dei grandi capitalisti avrebbe dovuto essere perfetta, quando invece le cronache hanno coniato da quel dì il motto per il quale “anche i ricchi piangono”. 

Insomma: da qualunque lato si consideri la vicenda, sfugge qualcosa. Senza la pretesa di chiudere un tema ampio come questo, è doveroso sottolineare che la caratteristica prima di un padre o di una madre, e quindi il bisogno più importante da soddisfare in un fanciullo, è il silenzio — la capacità di accompagnare, quasi da spettatore, il viaggio del proprio figlio. Il silenzio, però, non deve essere carico di solitudine, ma pieno di vita: se per essere genitori l’elemento decisivo è essere consapevoli del confine che c’è fra l’Io e il tu, fra te bimbo e me papà, questo confine — questo spazio vuoto tra noi — dev’essere popolato da una compagnia, da un intero villaggio. Che tipo di esperienza umana fanno coloro che accolgono in casa un bambino? Che amicizie vivono? Che legami sociali hanno? Sarà il figlio il loro unico orizzonte di vita, oppure quel fanciullo potrà “godere” del fatto che papà e mamma hanno una vita e che, pertanto, non lo utilizzeranno come si usa un oggetto o un animaletto? 

Capacità di accompagnare e tessuto sociale di riferimento sono condizioni imprescindibili per essere riconosciuti idonei all’affido o all’adozione. Ma non bastano. Urge una terza condizione da definire: la capacità, da parte dell’aspirante genitore, di vivere il sacrificio come la più alta forma di libertà. Un uomo è davvero libero quando può fare a meno di ciò che gli sta più a cuore in vista di un bene più prezioso. E’ chiaro che una tale libertà avviene solo nel cammino di un uomo riconciliato, in pace con se stesso. Non perfetto, ma consapevole e ironico. Le vedove del passato, i grandi papà della storia, hanno sempre saputo accompagnare i loro figli mantenendo passioni, interessi e amicizie che nutrivano la loro vita e che, all’occorrenza, hanno saputo sacrificare e mettere in discussione senza lamentarsi, ma col sorriso sulla faccia.

Maturità affettiva, sociale e psicologica non sono voci burocratiche di un procedimento civile, bensì sono il tribunale con cui l’uomo che ha ricevuto la bambina Down in affido dovrà misurarsi. Sono queste le premesse dell’amore, le premesse del desiderio, le premesse di ogni agio economico che si può condividere con i figli. Con la grande differenza che senza questi ultimi si può tranquillamente crescere, mentre senza i primi si condannano i bambini all’inferno più profondo: quello che ingabbia gli adulti nel loro narcisismo, nella loro ostinata ricerca di crescere un figlio come pegno visibile al mondo del proprio riscatto.