Avevo vent’anni quando Karol Wojtyla divenne Giovanni Paolo II. Avevo vent’anni e poco più quando, un mercoledì dopo l’altro, cominciò a parlare dell’uomo e della donna, del dono reciproco, della bellezza che Dio ha inscritto nei corpi delle donne e degli uomini quando “maschio e femmina li creò”. Ci entusiasmavano quei discorsi — en passant, segnalo che l’essenziale di quella catechesi straordinaria è appena stato riproposto da Ares —, la scoperta che l’attrazione che provavamo per una ragazza, per un giovanotto, erano una cosa buona e bella, inscritta da Dio da sempre nel piano della salvezza, della felicità di ciascuno. Ricordo bene che mi colpì soprattutto quando il Papa spiegò — parafraso a memoria — che il fatto che gli esseri umani siano o maschio o femmina scolpisce fin nella carne, nella materia di cui sono fatti, il limite, la mancanza, il bisogno dell’altro: il tuo stesso corpo dice che non sei tutto, che per essere completo ti serve qualcosa che non ti puoi dare da te, che devi chiedere a un altro, a un altro diverso da te.



Non posso non ritornare a questi pensieri nel leggere i lanci di agenzia che dicono del discorso di Papa Francesco alla Pontificia accademia per la vita, che condanna “l’utopia del neutro” perché “rimuove […] la dignità umana della costituzione sessualmente differente”. Si scateneranno adesso — immagino — i corifei del gender, delusi probabilmente dal fatto che un papa così “aperto” ribadisca su questo punto una dottrina “superata”, e rilanceranno — immagino — l’accusa di “omofobia”. Ma non si tratta di questo. L’ho già scritto su queste pagine, lo ribadisco, ho cari amici omosessuali. Non è questa la questione. La questione è quella della cultura moderna. La cultura che pensa, che afferma che l’uomo è dio. E se l’uomo è dio deve essere autosufficiente, in tutto. Deve determinarsi da sé, in tutto. Non può accettare che qualcosa in lui sia determinato da altro da sé. In questo caso, dalla materia di cui è fatto.



Tutta la partita dell’umano si gioca qui. Ho già citato su queste pagine Hannah Arendt, la ripropongo: “Hannah Arendt — ricorda Finkielkraut ne L’umanità perduta — definisce con il termine risentimento la disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno. Risentimento contro ‘tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza’; risentimento contro ‘il fatto che egli non è creatore dell’universo, né di se stesso’. Spinto da questo risentimento fondamentale, l’uomo moderno ‘proclama apertamente che tutto è permesso e crede segretamente che tutto sia possibile’. […] Hannah Arendt afferma nello stesso testo che la gratitudine è la sola alternativa al nichilismo del risentimento, ‘una gratitudine fondamentale per le poche cose elementari che ci sono invariabilmente date, come la vita stessa, l’esistenza dell’uomo e il mondo'”.



Non saprei dirlo meglio di così. Posso accettare, riconoscere che non mi faccio da me, e che nella mia carne è incisa l’insufficienza, è inciso il limite. O posso combattere questa evidenza, negarla, gridare che “io sono mio” — “Io sono mio è il primo principio dell’inferno”, ricordava Clive Staples Lewis citando il suo maestro McDonald —, posso fare di me ciò che voglio, come proclama la cultura moderna. Il papa non è omofobo (e non ha certo bisogno della mia povera difesa); il papa sta, semplicemente, col realismo, con la gratitudine di chi riconosce la realtà per quello che è: una cosa che non faccio da me.

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