Il sommo poeta aveva avvertito per tempo: “Tu proverai come sa di sale lo… pesto altrui”. Ma gli inglesi, che leggono The Guardian e non sanno l’italiano, non se ne sono dati pensiero. E così, dopo la guerra delle rose, del pane, dei bottoni e financo del prosecco, hanno rischiato di far scoppiare la guerra del pesto che troppo sa di sale. Proditorio attacco di The Guardian, fulminea controffensiva del sottomarino Toti. Il quotidiano londinese ha pubblicato i risultati di analisi di laboratorio, da cui risulta che vari tipi di pesto di industrie italiane commercializzati nel Regno Unito sono troppo salati e fanno male alla salute e, colmo della rogna, piacciono soprattutto ai bambini che ne ingurgitano un fracco. Il governatore ligure ha invitato i reporter inglesi a degustare, ignoranti enogastronomici che non sono altro, il vero pesto della sua terra, quello fatto in casa col basilico fresco e il mortaio. Per andare sul sicuro gli ha spedito in redazione un charter con una certa provvista.
Mossa simpatica, via. In questa storia due cose sono certe. Primo: troppo sodio fa male, ed è causa di ipertensione e malattie cardio-vascolari. Questo lo attestano gli illustri clinici. Tanto che tutti i paesi europei, chi più chi meno, cercano di ridurne il consumo pro-capite, che è più del doppio del giusto (3-5 grammi di sale al giorno, pari a 1,2 grammi di sodio). Massimi ingoiatori di sale risultano, con 10 grammi al giorno, Svizzeri e Norvegesi, ma gli altri seguono a ruota.
Secondo: fatto salvo che de gustibus non est disputandum, è un fatto che molti, non dico tutti, ma molti pesti pronti in vasetto che si comprano al supermercato sono salatissimi è non invitano al peccato di gola. Questo lo può attesta chiunque ne assaggi e non abbia le papille in necrosi.
Del resto Olivolì olivolà oliva Saclà, premiata ditta alimentare astigiana dal 1939, si è giustamente difesa assicurando di prestare sempre massima attenzione al sale nei pesti e alla salute dei mangiatori di pesto e spiegando in aggiunta che il sale non serve solo per insaporire, ma anche per conservare, eliminando l’uso di conservanti meno naturali.
Il laboratorio londinese del Consensus Action on Salt and Health (in sigla “Cash”) ha fatto misurazioni precise. Ci sono 2-2,5 grammi di sale per 100 grammi di pesto, troppi; tanto più registrandosi un aumento del 20-30 per cento rispetto al 2009.
Dice Toti: ma quello non è il vero pesto. E quanto prevede di sale la ricetta delle sante massaie genovesi? “Un pizzico”. E quelle dei libri e siti di cucina? Si legge: “Sale: q.b.”, cioè “quanto basta”.
Grande in grammi e grandezze in q.b. (o pizzichi) sono incommensurabili. Insomma, quantità di sodio nel prodotto industriale e valore del prodotto doc fatto con le sante manine c’entrano come i cavoli a merenda. Il tiro incrociato tra il quotidiano e il sottomarino denuncia puntatori strabici.
Si può ragionare insieme se si sta ai fatti e alle cifre. Del resto i programmi dei vari paesi europei prevedono forme di negoziato e di collaborazione con le aziende. Farne una guerra del pesto tra la perfida Albione fish&chips (pesce e patatine) e il Made in Italy, anzi in Ligury, è divertente ma fuori luogo (come peraltro i redattori del Guardian e il governatore della Liguria sanno benissimo). Quindi, fate l’amore, non fate la guerra. Mettete dei fiori nei vostri cannoni. E infatti: il sottomarino Toti ha messo del pesto nei lanciasiluri. Grosso modo, è lo stesso, no?
Quindi pax et bonum. Tuttavia domande angoscianti restano senza risposta: ma quanto pesto mangiano i piccoli lord per rischiare l’infarto? E perché gli piace? Ma soprattutto: che cosa ci condiscono? Difficile trattarsi di trenette cotte al punto giusto. Temo che il pesto lo mettano a mo’ di ketchup o senape sul fish e sul chips e magari sui salcicciotti al salgemma sfrigolanti sulla piastra in oscena promiscuità con fette di bacon e pezzi di merluzzo.