La “buona battaglia” contro la causa delle malattie che caratterizza la medicina moderna — quella antica si limitava a cercare di conoscere le cause per prevenire, in qualche caso, l’insorgenza delle infermità e a predisporre qualche cura, per lo più sintomatologica — non ha sosta. Dopo le malattie infettive, che hanno visto crescere i successi terapeutici a partire dalla fine degli anni Trenta, e le malattie metaboliche, cardiovascolari e neoplastiche che sono state aggredite con sempre maggiore efficacia ed efficienza negli ultimi decenni del secolo scorso, è ora la volta delle patologie genetiche che sono causa di numerose malattie e sindromi, in gran parte ereditarie.
Se alcune di queste non sono infrequenti — come la fibrosi cistica (poco meno di 1 su 1000 bambini), la sindrome di Noonan (circa 0,7 su 1000 nati) e la distrofia muscolare di Duchenne (circa 1 maschio su 3500) — la maggior parte sono rare e rarissime (in Europa colpiscono meno di 5 persone ogni 10mila nati). Tuttavia, essendo il loro numero molto elevato (circa 4800 distinti fenotipi clinici, per non tutti dei quali sono attualmente noti i geni causativi), l’incidenza complessiva è pari a oltre il 2 per cento della popolazione. Ad essere “rara” è la singola malattia ereditaria, non certo il complesso di tutte le malattie rare, di cui si continuano a identificare nuove forme cliniche e ulteriori sequenze genomiche le cui mutazioni sono causa del loro fenotipo patologico.
Il bene della vita di un essere umano è, in sé stesso, sempre un bene fondamentale, qualunque siano le sue “qualità” fisiche e cognitive, il suo comportamento, il grado di sviluppo che è capace di raggiungere, le abilità che può conseguire e la durata della sua esistenza terrena. La vita è un bene fondamentale agli occhi di Dio, che guarda ad ogni persona come alla sua creatura prediletta, che sulla terra è “la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso” (Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 24). Lo è per ciascun soggetto, perché alla sua vita inerisce ogni altra dimensione individuale e relazionale della sua esistenza, e anche per la società, che nella vita dei suoi membri trova la ragione del suo esistere e ogni risorsa per il suo progredire nella storia, nella cultura e nel benessere.
Non sono le statistiche epidemiologiche sulla frequenza delle malattie a fondare ultimamente il valore umano delle ricerche delle scienze e delle tecnologie biomediche tese ad alleviare le sofferenze e a migliorare le condizioni e le aspettative di vita fisica e neuropsicologico-relazionale di questi pazienti. Né dal numero dei pazienti si potrà decidere quale malattia è meritevole di essere studiata più approfonditamente per rivelarne le cause e scoprirne i rimedi più efficaci. Ogni persona, in qualunque età della vita, sana o ammalata, è “un fine in sé stesso”, “ha un valore intrinseco”, direbbe Kant (cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, 1785).
In numerosi centri internazionali sono in corso da oltre due decenni diversi tentativi per identificare e validare clinicamente un robusto e affidabile approccio alla terapia di correzione dei difetti del genoma umano che causano gravi malattie ereditarie, cui si associano, nel paziente, forti sofferenze e pesanti disabilità — il decesso sopravviene spesso in età pediatrica o entro le prime decadi di vita — e provocano nei loro familiari una maggior fatica nella cura quotidiana, l’oneroso ricorso a frequenti accertamenti clinici e la ricerca di condizioni ambientali, nutrizionali e sanitarie eccezionali che devono essere predisposte a domicilio o presso strutture di degenza specializzate. Sebbene non manchino cure, e talvolta anche terapie, in grado di frenare o rallentare il decorso di talune malattie genetiche (almeno in alcuni quadri clinici di organo o apparato; raramente in quelli sistemici), siamo ancora lontani dall’affrontare queste patologie complesse nella loro causa biologica che, ultimamente, risiede in un difetto genomico, legato ad una variazione deleteria nella struttura e nella funzione del Dna nucleare o mitocondriale.
Ha fatto notizia una sperimentazione clinica in corso presso il Benioff Children’s Hospital di Oakland — un prestigioso ospedale pediatrico legato alla School of Medicine della Università della California di San Francisco — dove un uomo di 44 anni, affetto dalla sindrome di Hunter, è stato sottoposto ad un tentativo di riparazione del danno metabolico provocato in lui da una mutazione nel gene IDS, localizzato sul braccio q28 del cromosoma X.
Si tratta di una grave malattia metabolica, appartenente al gruppo delle mucopolisaccaridosi, conosciuta da anni da chi si occupa di genetica clinica, che colpisce quasi esclusivamente i soggetti maschi (circa uno su 130mila bambini) e provoca un massiccio accumulo di grosse molecole chiamate glicosamminoglicani o mucopolisaccaridi in molte cellule che compongono i tessuti e gli organi del nostro corpo. In conseguenza di questo, con il passare degli anni, risultano particolarmente danneggiati il cuore, i polmoni, le ossa e il sistema neuromuscolare. Sino ad oggi, l’unica speranza terapeutica è quella offerta dal trapianto precoce (generalmente nel bambino prima che abbia raggiunto i tre anni) di cellule staminali ematopoietiche e, nel resto della vita del paziente, dalla terapia enzimatica sostitutiva con un farmaco, la Laronidasi, il cui principio attivo è costituito dalla proteina che è congenitamente deficitaria in questi pazienti, l’enzima alfa-levo-iduronidasi. Tuttavia, in molti pazienti questo trattamento non riesce ad arrestare adeguatamente il progressivo deterioramento del quadro clinico, da cui consegue la loro morte. Si rende dunque necessario trovare un approccio terapeutico nuovo, che sia più efficace e duraturo nel tempo, idealmente capace di riparare stabilmente il difetto che risiede nel genoma, in questo caso nel gene IDS, che a motivo di esso non è in grado di esprimere in modo qualitativamente o/e quantitativamente adeguato la proteina enzimatica alfa-levo-iduronidasi.
Diversi sono gli approcci sinora sperimentati in vitro (e, nel modello animale, anche in vivo) per una correzione mirata di un difetto genomico all’interno delle cellule. La tecnologia adottata in questo caso si differenzia da quella della Crispr-Cas9 (la più nota al pubblico a motivo di alcuni recenti esperimenti di editing genetico su embrioni umani, criticati scientificamente ed eticamente da diversi autori), ma anche da un’altra alternativa proposta per la riparazione del Dna, chiamata Talen, che fa ricorso ad una proteina DNA-legante specifica per una sequenza da modificare.
Nella sperimentazione in corso presso l’ospedale californiano, i ricercatori si sono invece avvalsi di enzimi chiamati “nucleasi a dito di zinco” (ZFN) in grado intervenire specificamente sulle sequenze genomiche insieme ad un enzima di restrizione, denominato FokI. La procedura ZFN, introdotta nel 1996, è stata sinora ampiamente applicata con un certo successo per manipolare il genoma di piante, animali e cellule umane in vitro. Ora, però, siamo di fronte ai primi interventi clinici sul corpo di pazienti attraverso le cellule del loro fegato, che costituiscono il “bersaglio” elettivo di questo tipo di correzione genomica di difetti ereditari. E’ stato reso noto che, in seguito all’autorizzazione della Food and Drug Administration (Fda), altri due protocolli sono in corso negli Stati Uniti su pazienti affetti da mucopolisaccaridosi di tipo 1 e da emofilia di tipo B.
Il realismo (che impone di tenere conto di tutti i fattori costitutivi della realtà del paziente e della sua malattia) e la ragionevolezza (che esige che lo sperimentatore e il medico usino in modo ragionevole la ragione clinica ed etica) sono chiamati — insieme ad un’autentica moralità del pensare e dell’agire — a guidare le scelte e orientare le decisioni nella ricerca biomedica e nella pratica diagnostica e terapeutica sperimentale. Al di là dello scopo positivo che esse si prefiggono — la sconfitta della malattia di cui soffrono i pazienti affetti da sindrome di Hunter — le riserve cliniche ed etiche su queste sperimentazioni sono dovute al fatto che, nonostante la tecnologia ZFN presenti alcuni vantaggi rispetto alla Crispr-Cas9 e al Talen, la realtà della metodologia adottata e dei risultati precedentemente ottenuti in altri modelli genomici non consente di escludere ragionevolmente, anche per la ZFN, quello che viene chiamato, con un neologismo inglese recentemente coniato, lo “starget“, ossia un effetto “fuori bersaglio (target)”. Il “taglia e cuci” riparativo del Dna potrebbe — salvo prova contraria che attende ancora di essere esibita convincentemente — intervenire non solo dove è necessario (nel locus genomico del difetto che è causa della sindrome di Hunter), ma anche in altre regioni del genoma non obiettivo dell’operazione, creando potenziali rischi per la salute del paziente.
Il principio che la teologia morale chiama tuzioristico (in dubio pars tutior eligenda est: in caso di incertezza sulle conseguenze di una azione che coinvolge la vita umana, occorre sempre scegliere il comportamento che tutela maggiormente il bene della persona) e che la bioetica e la biogiuridica contemporanea indicano come “principio di precauzione” impone con evidenza che si debba progredire sulla strada della manipolazione riparativa del genoma umano usando grande prudenza e saggezza, per non mettere a rischio l’integrità fisica e la salute dei pazienti. Questo esige una rigorosa e concertata riflessione scientifica, clinica ed etica prima di procedere all’applicazione della “chirurgia genetica” in vivo su pazienti affetti da malattie ereditarie. Il bene della persona soggetta a sperimentazione viene sempre prima di qualunque interesse — pur legittimo e apprezzabile — della scienza, della medicina e della società, come la Dichiarazione di Helsinki della World Medical Association e tutti i documenti internazionali e nazionali di deontologia medica espressamente richiedono.