E da mesi che aspettavamo: l’altro ieri finalmente è arrivata la notizia che nell’ospedale di Oakland in California si è cercato di correggere un gene difettoso responsabile di una grave malattia metabolica mediante una delle tante varianti della tecnica del “genome editing” in un paziente di 44 anni affetto fin dalla nascita della malattia. In verità c’era già stato un esperimento, apparentemente andato a buon fine, nel 2015 da parte di un team di scienziati cinesi che avevano potenziato con il “genome editing” la capacità delle cellule immunitarie di attaccare un tumore. Ma la notizia allora, come probabilmente altri casi simili, non aveva bucato i media. Nel caso di Oakland bisognerà aspettare tre mesi per conoscere se la cura avrà avuto successo.
Con estrema semplificazione, in cosa consiste il “genome editing” e quali sono i benefici che può portare e i suoi limiti? E’ una tecnica che permette di modificare direttamente la sequenza del Dna nel punto che vogliamo e nel modo che vogliamo: in altre parole, analogamente al lavoro dell’editore di un libro, è come modificare in un libro la terza parola della quarta riga della pagina 12. Per questo motivo viene chiamato “genome editing”.
E’evidente che questa tecnica si presenta estremamente interessante per la cura di quelle malattie genetiche dove i sintomi sono principalmente dovuti alla funzionalità alterata di un singolo gene. Pensiamo per esempio all’anemia mediterranea (beta-talassemia) diffusa nelle popolazioni del bacino del Mediterraneo. Essa è dovuta a una ridotta sintesi della catena beta dell’emoglobina causata dalla mutazione di un gene singolo, il gene HBB. In questo caso potremmo prelevare dal paziente talassemico alcune cellule progenitrici dei globuli rossi, sostituire con il “genome editing” il gene alterato con il gene normale e reinserire le cellule nel midollo osseo del paziente in modo che queste cellule, proliferando, producano quantità sufficienti di catene beta dell’emoglobina.
In altre parole sono le malattie monogeniche quelle che potrebbero ricevere il maggior beneficio dal “genome editing”, come nel caso del paziente di Oakland, dove la malattia era dovuta alla mancanza di un enzima a causa di una mutazione nel gene responsabile della sua sintesi. Tuttavia quanti sono, dei circa 20mila geni presenti nell’uomo, quelli responsabili di malattie monogeniche, cioè dove la manifestazione patologica è totalmente dipendente dalla mal funzionalità di un singolo gene? Solo un’esigua minoranza.
Ma questo cosa significa? Significa che nella stragrande maggioranza le malattie di origine genetica sono multifattoriali, dovute all’interazione di molti geni, come d’altronde gran parte delle malattie che si manifestano durante la vita. E anche le malattie monogeniche risentono dell’azione dell’insieme dei geni dell’organismo, come testimoniato dal fatto che la stessa beta-talassemia può essere più o meno grave a seconda del cosiddetto background genetico, cioè gli altri geni dell’organismo. Quindi il concetto di “gene per”, che così spesso troviamo sui giornali (scoperto il gene per questa o quest’altra malattia, o per questo o quest’altro carattere), è sbagliato: è l’insieme dei geni, delle relazioni tra loro, delle modificazioni che essi subiscono durante la vita di ciascuno di noi, per non parlare delle influenze ambientali, che controllano lo stato di salute o malattia del nostro organismo.
E’ evidente quindi che il “genome editing”, senza sminuirne il suo valore, ha dei limiti: può agire su quei geni di cui conosciamo perfettamente l’azione e le relazioni che intrattengono con i restanti geni con tutta l’aleatorietà che queste relazioni possono subire durante la vita dell’organismo.