Forse è intempestivo dire che con la morte di Totò Riina è finita la mafia. Certamente se n’è andato chi, come lui, ha impersonato un’ossessione  lunga e tenace per l’onnipotenza.

Il suo fu un vero e proprio delirio. Riina lo impose prima ai suoi commilitoni e poi allo Stato, inducendolo ad una reazione durissima avviata dal governo Amato nel 1992.



La sua ascesa, insieme a Provenzano, Bagarella, Graviano alla testa dei corleonesi avvenne con un eccidio sistematico di centinaia e centinaia di vecchi compari, quelli della vecchia mafia che aveva convissuto con le istituzioni dello Stato. Non sulla base di un principio, ma di una prassi  secolare di convivenza spartitoria tra il proprio ordinamento criminale e quello disegnato prima dallo Statuto albertino e poi dalla Costituzione repubblicana. Così è stato per la mafia di Liggio, Bontate, Teresi. Una mafia incline al compromesso, che badava a rendite e profitti (cioè agli affari, come tutti i mafiosi) perseguendoli nei propri confini.



All’inizio degli anni Novanta, Riina scatenò una guerra implacabile, senza esclusione di colpi, per impadronirsi del bastone di comando, cioè delle commissioni provinciali e di quella regionale che riuniva tutti i rappresentanti delle gerarchie locali. Per i suoi avversari fu una vera e propria guerra di sterminio.

Con Riina cominciò un’altra stagione che ebbe un doppio volto. 

Il primo: una contestazione dei poteri dello Stato fatta sempre più a muso duro, seminando la strada di cadaveri anche eccellenti. E’ la scelta del terrorismo aperto. Il segnale venne dato dall’eliminazione prima del plenipotenziario di Giulio Andreotti, Salvo Lima, e successivamente dei magistrati Falcone e Bosellino.



Il secondo si manifestò quando il terrorismo diventò stragismo. Lo si riconobbe dal fatto che la violenza venne seminata fuori della Sicilia, colpendo il patrimonio artistico come avvenne nel 1993 con le stragi di Roma, Firenze e Milano.

Questa strategia a due facce può essere definita il “capolavoro” di Riina. In realtà, essa fu la manifestazione plateale dei suoi limiti di analisi e di linea politica. In altri termini, fu l’inizio di una sconfitta irreparabile.

La sfida portata allo Stato sul terreno delle armi ha avuto un apparente successo. Mai l’autorità e la potenza di fuoco delle nostre forze armate e in primo luogo della politica sono state così deboli e delegittimate come negli anni 1991-1994. Nell’opinione pubblica si diffuse un sentimento terribile e devastante, cioè che l’anti-Stato, i poteri criminali, avessero in mano la situazione e che il regime democratico nel nostro paese fosse finito.

Si è fatta strada — ma non lo si è voluto mai approfondire — il sospetto che il modo con cui erano stati uccisi Falcone e Borsellino avesse ben poco da spartire col modo secco e tagliente con cui la mafia aveva sempre ucciso. La minaccia contro uomini politici, autorità religiose, giornalisti, l’eccessivo impiego di esplosivo e lo smantellamento di centinaia di metri di autostrada a Capaci, il fallito attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico di Roma dopo Lazio-Udinese nel 1993 sono episodi che sembravano avere un suggello inquietante, lasciando intuire un accordo, uno scambio di favori, il grumo di un’alleanza tra Riina e Provenzano da un lato e poteri criminali di origine internazionale. 

Ma la ricerca di uno scontro con lo Stato al massimo livello ha coinciso con l’incremento dei pentiti e dei collaboratori di giustizia in seno alle cosche (i primi furono Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Nino Calderone). Si guadagnava di meno e si rischiava di più, perché il sistema di prevenzione e di repressione, avviato dal governo Amato, era stato rafforzato. Vi avevano contribuito le centinaia di boss che abbandonavano la vecchia milizia e si consegnavano allo Stato.

Riina aveva tentato di far leva su alcune debolezze dello Stato. Tale fu la volontà di trovare una soluzione non guerreggiata, ma in qualche modo concordata, da parte di un ministro onesto e competente come Giovanni Conso. La mitigazione del regime del 41bis introdotto dal ministro socialista Claudio Martelli fu l’inizio di una trattativa che venne  negoziata, mettendone a punto le singole richieste, nel papello redatto (malamente) da Riina.

Ora sarà difficile delineare i contorni precisi di questa trama che i magistrati di Caltanissetta hanno in mano. Riina non ha lasciato, che si sappia fino ad oggi, memorie o diari. Né ha indicato testimoni affidabili.

Se n’è andato com’era vissuto. Un uomo feroce, crudele e potente che si era imbarcato in un’avventura estrema destinata, alla fine, a mostrare più pericoli e sconfitte che successi. 

Salvatore Sechi è autore de “Dopo Falcone e Borsellino, perché lo Stato trattò con la mafia? Sul documento inabissato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie”, Goware 2017.