La MedConference è un congresso medico americano con scadenza annuale da ormai nove anni che riunisce a New York medici, infermieri, amministratori, altri operatori sanitari e studenti. Lo scopo è di costruire professionisti in grado di servire i bisogni medici e non strettamente medici del paziente, ovvero in grado di generare una medicina person-oriented



Per discutere il tema del 2017 — “Healing in a time of efficiency” — sono stati invitati come relatori professori e amministratori di importanti centri universitari, insieme con infermiere e altri professionisti che lavorano per importanti health care systems americani e canadesi. 

Il convegno apre le porte ufficialmente il sabato mattina, ma molti dei partecipanti arrivano all’hotel venerdì sera in quanto provenienti da tutta l’America e il Canada e, tra questi, i relatori.



È nostra consuetudine offrire una cena di benvenuto agli speakers, che di solito però tendono ad arrivare alla spicciolata a seconda dell’arrivo dei voli, per cui più che una cena coi relatori è sempre stato un “garantire un pasto caldo”.

Quest’anno abbiamo rischiato e proposto la cena ad un’ora precisa e, inaspettatamente, quasi tutti i relatori si sono organizzati per essere lì in tempo, alle 19.

Ci sediamo al tavolo, siamo in 12, di cui cinque siamo noi organizzatori e poi sette persone che non si conoscono tra loro e conoscono appena un pochino quelli tra noi che li avevano personalmente invitati.  



La composizione intorno alla tavola è interessante. Ci sono un professore di medicina interna e cardiologia, un professore di pneumologia e critical care ed un ingegnere direttore della qualità. I tre lavorano alla Mayo Clinic e fanno anche parte di un gruppo di studio che si occupa di rapporti tra fede e religione. Al loro fianco il Ceo (chief executive officer) del North Memorial Health, un health care system che copre gran parte del Minnesota con background ateo. Tutti questi diciamo “uomini di potere” sono americani e al cento per cento bianchi. Dall’altra parte del tavolo un’infermiera 40enne rumeno-canadese molto vivace che dirige le sale operatorie di uno dei più importanti ospedali di Montreal, il Jewish General Hospital. L’altra infermiera al tavolo è una tenerissima, non più giovane piccola afro-americana — di cui è impossibile stabilire l’età — che sembra venuta fuori dal film Hidden figures. Lei lavora per il Methodist Jewish Health System e visita i vecchietti di New York nelle loro case, e li accompagna nei loro ultimi giorni, tenendoli per mano e pregando con loro. A completare il giro del tavolo c’è un medico sulla sessantina, che si definisce ex-ebreo ed ex-ateo, e che ad un certo punto della vita si è convertito ad una vita mistica e si è unito alla comunità monastica “Spirit of Peace Interfaith”. A quel punto ha smesso di fare il medico di famiglia ed è diventato direttore di una compagnia di consulenza per ospedali con lo scopo di migliorare la qualità dei servizi. 

Siamo su un tavolo largo, inevitabilmente ognuno comincia a far conoscenza col vicino e c’è un grande chiacchierio comune. Dopo qualche minuto proponiamo di fare il giro del tavolo per introdurci, visto che per molti è il primo incontro. Ognuno si presenta, c’è qualche attimo di silenzio, sto aspettando che il chiacchierio ricominci ed invece… succede qualcosa di inaspettato. 

L’ex-ebreo ed ex-ateo, ora mistico e anche intelligentemente curioso, non ha mai sentito parlare della nostra associazione (Aamp, The American Association of Medicine and the Person). Ci chiede come e quando è nata, perché è nata, cos’è la persona per noi e via dicendo. Rispondo alle sue domande incalzanti dapprima con note storiche (l’inizio della Aamp come non profit, eccetera) ma poi devo affrontare la sua domanda “cos’è la persona?” e mi trovo a parlare del senso religioso, il vero punto di contatto possibile tra gli esseri umani, perché tutti ce l’abbiamo. È quello che ci differenzia dagli animali — gli dico, “hai mai visto un gatto sospirare di fronte alla luna?” — e lui è molto d’accordo. Ma soprattutto quello che caratterizza la persona sono le domande di senso, che non vengono fuori quasi mai, e sono nascoste fino a quando ci succede qualcosa di grosso che ci fa domandare: perché si vive? perché si soffre? perché proprio a me? … 

Non c’è più chiacchierio tra i vicini di posto, la discussione intorno al tavolo si anima, non è teorica, un medico ci racconta con commozione della perdita dei suoi due figli morti in tenera età e poi del divorzio come conseguenza. Un altro confessa di essere sopravvissuto ad un linfoma e di essere “guarito” di recente, ma con la voce tremante di chi fa esperienza concreta che la vita ha un limite. L’infermiera rumeno-canadese ci racconta che è arrivata come immigrata in Canada ed ha cominciato dalla gavetta come ausiliaria, e con tanta fatica e tenacia ora fa parte della leadership, però la dura esperienza l’ha resa più umana. È l’unica caposala che lascia libertà di orari alle sue infermiere. Ognuno sceglie gli orari che più aiutano la sua vita in famiglia, una lavora solo di notte perché hai dei bimbi piccoli, una solo al mattino perché ha un figlio handicappato, eccetera. La piccola afro-americana ha avuto fratelli e nipoti uccisi — non dice i dettagli — ma anche per lei si capisce che queste ferite hanno reso il suo cuore più tenero e aperto ad abbracciare i suoi vecchietti morenti.  Insomma poco per volta ognuno parla di situazioni difficili nella vita personale, nell’attività lavorativa e dopo 2 ore e mezza la cameriera del ristorante ci invita ad uscire perché “dobbiamo chiudere”.

E io mi chiedo, cos’è successo?

Persone che non si conoscevano, di livelli professionali completamente diversi, di razze, tradizioni e credi religiosi svariati, sono finite a parlare di drammi e ferite personali. Come mai?

Io credo che una persona sveli le sue ferite solo di fronte alla possibilità che queste ferite siamo curate. E chi può restituire ad un padre i suoi bimbi o sostenere la speranza di qualcuno con un tumore che può riaccendersi in ogni momento?

Non credo di essere una visionaria se dico che Cristo era lì, uno con noi, e attraverso le nostre piccole facce, abbracciava uno ad uno noi e i relatori alla cena.