“Ha più morti sulla coscienza Totò Riina o Emma Bonino”? Con questa domanda provocatoria un sacerdote docente della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, don Francesco Pieri, apre sul suo profilo Facebook un forte dibattito che, nell’ottica del presule, ha lo scopo di non lasciare in ombra la tragedia dell’aborto rispetto a quella, mediaticamente più politically correct, dell’organizzazione mafiosa.
A dire il vero non sono stati pochi sulla rete a fare considerazioni analoghe, arrivando a domandarsi il perché un medico abortista non debba vedersi negati i funerali pubblici al pari di un mafioso. E Pieri dà voce ad un fronte agguerrito, a tratti risentito, che trova sgradevole il coro nazional-popolare contro Riina tanto quanto il silenzio verso quello che è definito — sono parole del cardinale Biffi citate nei commenti al post dallo stesso prete — come “la più grande vergogna del novecento”, ovvero la legalizzazione e il finanziamento pubblico dell’aborto.
È importante chiedersi, dunque, quale sia il “peccato di mafia”, in che cosa consista e per quale motivo non possa essere paragonato all’aborto. Essere mafiosi non è perfettamente equivalente né al commettere omicidi né al muoversi dentro ad un sistema di valori disumani. La caratteristica della mafia, per cui chi vi appartiene incarna perfettamente la figura dell’antieroe, è quella di mutuare le dinamiche sane del vivere sociale per metterle al servizio di un apparato criminale. All’interno della mafia ci sono madri che si preoccupano per i loro figli, padri che iniziano la prole al loro mestiere, famiglie che si proteggono e che solidarizzano tra loro sostenendosi nel perseguire un “bene” più grande. Certo, si può obiettare, questo fa parte del mondo della cosiddetta “mafia rurale”, mentre oggi la mafia è nello stato, tra gli avvocati, nella medio-alta borghesia e queste dinamiche vanno quindi via via modificandosi. Osservazioni più che corrette, ma che non riescono a mettere in secondo piano il fatto che la mentalità mafiosa sia una perversione delle dinamiche relazionali che fondano il vivere comune.
Questa perversione si poggia su quello che Papa Francesco chiamerebbe “un cuore corrotto”, ovvero un cuore che ha abdicato alla ricerca del Bene per trovare soddisfazione in un bene più piccolo che tiene in pugno la persona come farebbe un idolo. Il mafioso ritiene di essere moralmente migliore per un codice d’onore che ne definisce responsabilità e limiti, dimenticando che è per quello stesso onore che si perpetrano le peggiori efferatezze. Nel mafioso manca un giudizio sugli atti che si compiono perché la tensione morale è tutta concentrata sulle circostanze che giustificano e legittimano quell’atto.
L’aborto è un omicidio. Cruento, a volte spietato e sorretto da un sistema giuridico e burocratico che ne azzera la valenza morale, innalzando la volontà e l’intenzione del soggetto a legge suprema dell’esistenza. Ma dall’aborto non si scappa: il senso di colpa e di atrocità che insegue i medici e le donne che lo compiono è inenarrabile. In alcuni è spavaldamente eluso, in tutti permane come dramma che riempie di fantasmi l’esistenza. La mafia è una perversione della realtà che si origina in una corruzione radicale del cuore e del senso religioso. Non si possono paragonare due scelleratezze. Ma mentre il primo è la metastasi di una modernità impazzita, la seconda è uno dei tumori più antichi che si porta dietro l’umanità e che compromette gravemente la consapevolezza e la vocazione di ogni persona riducendola ad ingranaggio di un sistema in cui non c’è spazio per altro se non per una violenza cieca e beffarda che misura la moralità di ogni azione sulla base del codice d’onore che la promuove e la legittima.
Spiace vedere uomini di fede che, di fronte alla complessità di questo nuovo millennio, non riescono a fare altro che citare in modo ossessivo il Magistero, far leva sugli umori della pancia dei fedeli e appiattire, pur con tutte le buone intenzioni, la poliedricità della realtà su un risentimento che — benché comprensibile — rischia solo di rivelarsi diseducativo e banalizzante. Trasformando la Chiesa in un fortino estremista incapace di comprendere le vicende del nostro tempo perché preoccupato solo di non smettere di avere ragione. E, quindi, di avere potere.