L’ex generale Ratko Mladic è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia. Per capire la portata giuridica e politica della sentenza, è anzitutto importante evitare una facile confusione. Il Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia è un organo ad hoc istituito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1993 e che avrebbe dovuto terminare la sua esistenza nel 2010. È stato mantenuto in vita per concludere tre processi pendenti, ma chiuderà comunque il mese prossimo. L’appello di Mladic sarà discusso da un diverso tribunale, chiamato Meccanismo per i tribunali penali internazionali, creato dalle Nazioni Unite nel 2010 al solo scopo di gestire gli appelli contro le sentenze rese dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia presentati dopo il 1° luglio 2013, nonché gli appelli contro le sentenze del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, che ha cessato di esistere nel 2015.
Va sottolineato che tutti questi organismi — Tribunale per la ex-Jugoslavia, Tribunale per il Ruanda e Meccanismo — sono diversi rispetto alla Corte penale internazionale, che è anch’essa un organo delle Nazioni Unite, ha anch’essa sede a L’Aja, ma ha una giurisdizione universale rispetto ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, non limitata a specifici conflitti. C’è poi una differenza essenziale tra la Corte penale internazionale e gli altri tribunali citati: tre Stati che fanno parte del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Russia e Cina) non riconoscono la Corte penale internazionale, mentre riconoscono i tribunali che si occupano dell’ex-Jugoslavia e dell’ex-Ruanda.
Tutto questo può sembrare molto tecnico, ma è decisivo dal punto di vista politico. I tribunali citati sono espressione di un principio nato con Henry Dunant (1828-1910), il filantropo svizzero che fondò la Croce Rossa: anche le guerre hanno regole, e chi le viola va punito. Già gli antichi Romani e il Medioevo avevano uno ius in bello, ma con Dunant nasce il moderno diritto umanitario internazionale, che prevede sanzioni comminate da tribunali internazionali per chi viola le regole di una guerra “pulita”. Sulla base di successive convenzioni, il diritto umanitario internazionale si è poi sdoppiato: il “diritto dell’Aja” definisce e punisce i crimini commessi in guerra da una delle parti in conflitto contro un’altra, mentre il “diritto di Ginevra” prevede e punisce i crimini commessi in tempo di guerra contro i civili. Le espressioni attuali più importanti del diritto internazionale umanitario sono i Protocolli I e II alla Convenzione di Ginevra, firmati nel 1977. Ma questo diritto non è completamente “internazionale” perché cinque Stati — Israele, Stati Uniti, Turchia, Pakistan e Iran — o non hanno firmato o non hanno ratificato i Protocolli, e Iraq e India vi aderiscono solo parzialmente.
Tradotto in termini pratici, questo significa che proprio gli Stati più spesso impegnati in operazioni militari — Stati Uniti, Israele, Iran, Pakistan, Turchia, India, e per quanto riguarda la Corte penale internazionale anche Russia e Cina — preferiscono in sostanza tenersi le mani libere, e non hanno nessuna intenzione di farsi giudicare da corti internazionali sulla base di standard precisi relativi a che cosa si può e non si può fare in guerra e quali sono le linee rosse da non valicare nel trattamento dei civili.
Come è evidente, questo solleva un dubbio sui tribunali internazionali. È probabile che i condannati siano in effetti colpevoli di crimini di guerra. Ma si processano serbi e ruandesi, mentre nessuno presenterà mai il conto a un generale russo o americano (ovviamente con una differenza fra i due: in America dei militari che commettono atrocità si occupano talora davvero i tribunali nazionali, il che non succede in Russia). Così, nella comunità internazionale, la soddisfazione perché alcuni crimini di guerra sono talora puniti non può essere totale. Rimane l’impressione dei due pesi e delle due misure, e che alcuni Stati siano più uguali degli altri.