Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre era stata osservata, dai centri di monitoraggio di diversi Paesi europei, la presenza nell’aria dell’isotopo radioattivo Rutenio 106. Le osservazioni, e la conoscenza delle correnti atmosferiche nei giorni precedenti, avevano portato a individuare approssimativamente in una zona a sud degli Urali l’origine della contaminazione. Le autorità russe avevano negato qualunque coinvolgimento. Successivamente, il 9 novembre, l’ente francese di sorveglianza ha rilasciato un rapporto dettagliato sulle osservazioni, e pochi giorni fa l’ente meteorologico russo ha pubblicato le sue misure, che confermano l’osservazione, in quei giorni e circa nella stessa zona già identificata, di livelli elevati di Rutenio 106. La notizia ha quindi riguadagnato l’attenzione.



In Europa l’osservazione non ha causato alcuna preoccupazione da un punto di vista sanitario a causa della bassissima concentrazione dell’isotopo. Noi viviamo immersi nelle radiazioni naturali, che provengono sia da diversi tipi di rocce e terreni, anche incorporati in diversi materiali da costruzione, sia dai raggi cosmici. Uno dei contributi a questa radiazione viene dal gas radon, che si sprigiona da infime quantità di uranio presenti come impurezze in diverse rocce e terreni. Diverse campagne di misure, in Italia e in Europa, hanno misurato, nelle abitazioni, radioattività dovute al radon pari ad alcune decine di Bequerel al metro cubo (Bq/m3), con forti differenze tra luoghi diversi; la normativa europea fissa la soglia di attenzione a 400 Bq/m3. Dai dati comunicati dalle Arpa, e dagli enti di controllo di altri Paesi europei, la radioattività dovuta al Rutenio 106 è stata di millesimi di Bq/m3, cioè oltre diecimila volte più bassa di quella normalmente presente negli edifici. Dopo la prima decade di ottobre questo contributo è poi completamente scomparso. Ovviamente la situazione potrebbe essere stata, e forse essere ancora, piuttosto diversa nel raggio di alcuni chilometri dal luogo del rilascio.



Il fatto che anche questa radioattività sia stata misurata, e identificata come anomala, mostra la sensibilità e l’efficienza delle reti di monitoraggio. In particolare, ogni isotopo radioattivo ha uno specifico spettro di radiazioni emesse, che ne costituisce una sorta di “impronta digitale” che permette di riconoscerlo. Il Rutenio 106 non è presente in natura, è normalmente assente, quindi il solo fatto di osservare un suo contributo, anche in quantità piccolissime, costituisce un’anomalia.

Una preoccupazione è piuttosto dovuta all’opacità delle autorità russe, che, anche in violazione a trattati internazionali che obbligano alla tempestiva comunicazione di situazioni di radioattività anomala, non hanno comunicato nulla, continuano a negare qualunque coinvolgimento di loro impianti, e hanno solo comunicato dati di monitoraggio che confermano la presenza del Rutenio 106, a distanza di diverse settimane, e dopo la pubblicazioni di circostanziati rapporti da parte degli enti occidentali.



In assenza di notizie ufficiali, l’identificazione dell’origine del Rutenio 106 è solo indiziaria. Il Rutenio 106 è utilizzato per dispositivi medici, per la cosiddetta brachiterapia. In questa terapia sorgenti radioattive vengono poste a contatto di masse tumorali, con il vantaggio che la massa tumorale viene irraggiata, mentre gli altri tessuti ricevono dosi molto inferiori. Nella zona da cui presumibilmente proviene il Rutenio 106 si trova il centro nucleare di Mayak, il più antico e più grande centro russo per la manipolazione degli isotopi radioattivi e per il riprocessamento del combustibile nucleare esaurito. Dopo la chiusura, in Europa, di altri reattori sperimentali, il centro di Mayak è probabilmente rimasto l’unico sito in Europa che produce Rutenio 106. L’isotopo viene poi spedito in Germania, ove vengono confezionati i dispositivi medicali per la brachiterapia.

Il rutenio 106 viene prodotto nella fissione dell’uranio, il processo che genera l’energia delle centrali nucleari e delle armi nucleari. Il nucleo di uranio può spezzarsi in molti modi diversi, producendo diversi “frammenti” radioattivi, le scorie radioattive della reazione. Il Rutenio 106 è uno di questi, e viene ottenuto separandolo chimicamente da tutti gli altri. Il processo di fissione li produce tutti, in quantità diverse; quindi un rilascio di radioattività dovuta a una reazione di fissione, come quelli dovuti agli esperimenti nucleari nell’atmosfera degli anni 50, o quelli accaduti negli incidenti di Chernobyl e di Fukushima, rilascia molti isotopi diversi, riconoscibili dalle loro “impronte digitali”. Il fatto che sia stato osservato esclusivamente il Rutenio 106, e nessuno degli altri frammenti di fissione, indica che il rilascio è dovuto a un incidente avvenuto non nel reattore nucleare in cui avviene la fissione, e neanche nell’impianto che ritratta il combustibile scaricato, separando appunto il Rutenio 106. La separazione è quindi avvenuta normalmente, l’incidente è avvenuto a valle di essa, probabilmente nell’impianto che prepara l’isotopo per la spedizione.

Il fatto che il Rutenio sia arrivato fino in Europa occidentale porta a ipotizzare che sia avvenuto un incendio: nel caso di un incendio i fumi possono aver portato ceneri a grandi altezze, da dove le correnti atmosferiche li hanno dispersi, diluendoli fortemente. Tipicamente, un rilascio che avviene in assenza di un incendio porta invece a depositare tutto il materiale rilasciato entro alcuni chilometri, o al più decine di chilometri.

Questo è appunto quanto si può desumere dai fatti noti. Come detto sopra, più che le conseguenze del fatto in sé, che in Europa occidentale sono state pressoché impercettibili, può destare preoccupazione l’opacità con cui le autorità russe stanno gestendo anche questo evento.