YANGON (Myanmar) — L’arrivo è caldissimo. 32 gradi dopo 10 ore di volo attraverso due continenti. Il Papa scende con cautela la scaletta ed è il primo pontefice a toccare il Myanmar. E subito capisci che è in formissima. Scherza con il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e con monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli affari generali della Santa Sede che questa volta si è fatto trovare sotto la scaletta dell’aereo, a causa di un impegno in Malesia. Bergoglio parla in italiano mentre per i bambini che vestono abiti tradizionali, chiamati a raccontare in tutte le sfumature dell’arancio la diversità etnica del paese che lo accoglie, Francesco si affida al linguaggio dei gesti, decisamente a lui congeniale.
E se la timidezza misura i sorrisi e i composti inchini dei piccoli, ci pensa il pontefice argentino a rompere gli indugi. Prima giunge le mani e imita il benvenuto di questo spicchio d’Asia e poi lascia irrompere gli abbracci. In pochi preziosi istanti, Francesco condensa il senso della sua presenza a Yangon, l’antica capitale, veicolando le impressioni di un viaggio da molti ritenuto complesso, seppur necessario. A bordo dell’aereo, complice la partenza notturna, aveva riservato pochissime battute ai giornalisti, in cui, in sostanza, esprimeva un’unica preoccupazione, la temperatura. Mentre nell’arrivo quasi solitario, senza nessuna delle autorità che contano a dare il benvenuto, mostra di volere entrare nell’anima del paese dai 135 volti, quanti sono i gruppi etnici.
Ecco allora l’abbraccio ai bambini e lo scivolare rumoroso di clacson e sirene attraverso la città, immobilizzata per l’ospite, carica di cartelli di benvenuto e gruppi di persone lungo le strade. Non solo cattolici, che superano di poco l’1 per cento della popolazione, ma anche buddisti e tanti curiosi.
I templi splendono nell’afa di Yangon, e l’arrivo all’arcivescovado residenza dei giorni birmani del Papa riserva già una prima sorpresa. La giornata perde il carattere interlocutorio assegnatole dal programma e viene marcata dall’incontro con il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito, accompagnato da una delegazione di 4 militari. 15 minuti di colloquio in cui, si apprende, si è parlato “della grande responsabilità delle autorità del paese nel momento di transizione che attraversa”. Un segnale su chi detiene il potere in Myanmar, una visita di “cortesia” che anticipa gli appuntamenti (questa mattina) nell’inaccessibile capitale Naypyidaw, dopo la prima giornata di assestamento. Insomma l’incontro previsto per giovedì 30, in forma assolutamente privata, ha scavalcato gli altri impegni e si è imposto persino sull’atteso faccia a faccia con il simbolo nazionale, Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace sempre più in affanno sul piano internazionale.
Dietro l’asettico lessico diplomatico la prima mossa in una partita difficile per Francesco, che deve riuscire ad aiutare la “Signora” nel tentativo di risolvere la crisi dei Rohingya, l’etnia a maggioranza musulmana perseguitata dal regime militare e costretta alla fuga nel vicino Bangladesh, senza irritare chi di fatto detiene ancora gran parte del potere nell’antica Birmania. Love & Peace, recita il motto del viaggio nel paese del sud-est asiatico. Niente di più lontano dai mantra hippie che qualche occidentale innamorato di Budda continua ancora oggi a proclamare.