La messa è appena terminata. La folla era immensa: 150mila, forse 200mila persone. Difficile calcolare. I più poveri (per risparmiare i soldi dell’albergo) o quelli da più lontano, erano lì dalle 22 della sera prima. Qua è la qualche europeo e gente dalle nazioni vicine. Ma quello che colpisce è la varietà delle etnie presenti nei loro costumi tipici. Anche la messa è stata multilingue: inglese, birmano, italiano, latino, karen, kachin, shan, chin, tamil, kayan nel tentativo (riuscito) di dimostrare che nessuno deve sentirsi escluso: è la cattolicità, l’universalità e la specificità insieme espressi plasticamente.



Io arrivo alle 6.30, è l’alba. Al checkpoint mi requisiscono macchina fotografica e telecamera perché non sono accreditato come “Press” e me le restituiranno all’uscita.  Sperem! Alle 8.30 inizia la messa, fa già caldo. La voce del Papa è flebile. Mi sembra di rivederlo al parco di Monza quando iniziò la messa con voce bassa per poi rinfrancarsi via via. L’omelia è semplice (ha davanti gente comune) ma dice cose fondamentali.                                                                                                          



Innanzitutto spiazza chi pensa che sia venuto per insegnare. No: esordisce dicendo che è venuto per imparare e dare parole di speranza e conforto. Poi entra subito nel cuore delle questioni: il popolo porta le ferite della violenza ma la via della vendetta non è la via giusta. La via di Gesù è differente. Rispose con il perdono sulla croce. Poi il passaggio a mio parere più bello: tutto questo potrebbe essere un buon principio, ma se vogliamo potrebbe essere inteso in modo “ideologico”, certo un bell’insegnamento ma disincarnato. No: attraverso il dono dello Spirito anche noi possiamo fare questo nella vita. Così sarete testimoni. Insomma non la pace in nome della pace ma in nome di Cristo. Una pace, se non è fondata su Altro, è in balia della buona volontà. Noi non saremmo capaci di perdonare se non partendo da questo punto. Poi ha ricordato come la Chiesa, nei secoli passati e oggi, sta facendo molto attraverso opere di carità senza distinzione di razza e di credo. Porta la fede alle minoranze ma senza forzare. “Siete costruttori di pace e vi incoraggio a proseguire”.



Credo paradossalmente che il frutto più importante di questo gesto sia stato far vedere e far capire ai cristiani che sono un popolo composto di tanti popoli. Mai nessun prete o laico aveva fatto esperienza di un incontro dove fossero presenti tutti. Hanno fatto un’ esperienza di popolo, non più di un gruppo. E che l’unità è possibile solo a partire da questo punto.  

Mi permetto di annotare alcuni aspetti che potrebbero essere male interpretati. Ho sentito solo un applauso (quando il papa ha iniziato con un saluto in birmano, “Mingalaba”) e ne ho chiesto il motivo agli amici. La loro risposta è stata semplice: “A messa non si applaude”. Un altro aspetto tipicamente asiatico o meglio di una cultura che comunque è intrisa di buddismo: al passaggio del Papa sulla vettura ho visto sventolio di bandiere, qualche grida (ma non il rumore dei paesi latini o addirittura africani), ma non il tentativo di porgere bambini per la benedizione o un bacio. Ciò deve essere contestualizzato in un paese comunque di cultura buddista:  con una sintesi approssimativa potremmo dire: “Non essere troppo felice perché poi domani potresti essere molto triste, metti sempre il freno a mano, non si sa mai”. Ma dall’altro lato ho visto un livello di partecipazione, intesa come attenzione, silenzio, preghiera raramente incontrati in incontri oceanici.

Ora ci attende il rush finale.

(Silvio Pasero)