Parafrasando un noto proverbio, si potrebbe dire che la madre del razzista è sempre incinta. Giuseppe Germani (Pd), il sindaco di Orvieto che guida una giunta di centro-sinistra, sta valutando che misure prendere dopo che Massimo Gnagnarini, l’assessore al Bilancio, rispondendo sul proprio profilo Facebook ad un cittadino che gli chiedeva rimedi al fenomeno della presenza di donne nomadi nei pressi della stazione ferroviaria, ha evocato l’Olocausto. “C’aveva provato anche zio Adolf a prendere qualche rimedio, politicamente scorrettissimo, ma non gli è riuscito neanche a lui”: ecco l’osceno commento che ha indignato tutti e che qualcuno ha cominciato a strumentalizzare perché Gnagnarini milita a sinistra. Il fatto è che il razzismo non è né di destra né di sinistra: e chi pensava di averlo derubricato dalla propria vita perché è un problema di chi è “di destra” è pregato di fermarsi a riflettere. È proprio il caso di dire, in questo caso, che chi si ferma non è “perduto” ma è “salvato”. Perché il razzismo nasce dalla paura del diverso, dell’estraneo, e in quanto tale è una tentazione che alberga nel cuore di ogni uomo, non solo di quelli “di destra”. Dire che il razzismo è la tentazione di una “parte” politica, oltre che essere antistorico, è semplicemente stupido. Per accettare tutto questo però, è necessario raccogliersi — “fermarsi”, appunto —, essere sinceri con sé stessi e ammettere che, come accade per ogni vizio, potenzialmente ciascuno di noi può essere razzista.
D’altra parte, riconoscere che la tentazione del razzismo è lì, silente, appena oltre la soglia del nostro cuore, non significa essere indulgenti con Gnagnarini. Per questo credo che le dimissioni offerte dall’assessore debbano essere accolte. Perché un politico deve non solo rappresentare la cittadinanza ma anche guidarla e non gli è consentito reagire e parlare con la pancia, d’istinto, ma deve sempre riflettere con la coscienza di rappresentare al contempo delle persone e delle istituzioni.
Lo scivolone razzista del politico ternano ci consente anche di riflettere sul fatto che l’integrazione non è mai un processo facile, scontato, istintivo. Se nostra figlia tornasse a casa con un fidanzato di colore, magari con una fede diversa dalla nostra, come reagiremmo? Fare proclami è facile, più difficile viverli. Per questo il Papa non poche volte parla della necessità di pregare perché il nostro cuore si converta. In effetti non pochi passaggi del vangelo, a partire dalla celeberrima parabola del Buon Samaritano, ci dicono che la nostra conversione spesso passa proprio attraverso un cambiamento radicale del nostro modo di guardare lo straniero, cioè la persona di un’altra nazione e di un’altra razza.
Non è vero che essere d’accordo con l’accoglienza significa sempre accogliere facilmente. Accogliere, invece, è sempre un lavoro da parte di chiunque: da parte di chi è di destra e da parte di chi è di sinistra (per quanto abbiano ancora valore queste categorie).
Accogliere, ancora, è un lavoro che riguarda non solo chi accoglie ma anche chi è accolto. Perché si può accogliere solo chi vuole imparare ad essere accolto, in quanto si dichiara disponibile a confrontarsi sul piano della legalità. Chi, straniero o italiano, trasgredisce le regole che una società civile si dà, permette lo svilupparsi di un clima di sospetto e diffidenza che, paradossalmente, finisce proprio col nutrire il razzismo. È importante dunque coniugare lo sforzo di verità e conoscenza su noi stessi, l’impegno ad una responsabilità individuale e istituzionale, con la consapevolezza che il dialogo e la convivenza si raggiungono solo insieme.