YANGON (Myanmar) — Al Kaba Aye Centre avevano preparato le sedie bianche per lui. Ed è lì che Francesco si è seduto per togliersi le scarpe, come ogni buddista o semplice turista farebbe prima di calpestare un luogo sacro. Anzi non proprio: a lui hanno concesso di tenere le calze e di non mostrare la nudità dei piedi. Privilegi da Papa. Nella sala del grande complesso, centro della più antica corrente del buddismo, quella Therevada, Francesco ha incontrato, nell’afosissimo pomeriggio di Yangon, il consiglio supremo “Sangha”, 47 monaci di alto rango chiamati a sorvegliare sul rispetto del Vianaya, le regole di condotta degli oltre 6 milioni di monaci e monache presenti in Myanmar. La cupola d’oro della “Kaba Aye paya”, la “pagoda della pace mondiale”, distava poche centinaia di metri, ma il Buddha illuminato dai neon multicolor sorvegliava lo strano confronto che prendeva forma nella sala dorata di stucchi e poltrone: da una parte i monaci schierati in un’unica lunga fila dominata dall’arancio scuro, dall’altra il bianco della veste papale e del suo seguito, macchiati di rosso o viola a seconda del posto occupato nella scala gerarchica.
Premetto che adoro il color zafferano dei monaci buddisti e la raffinata eleganza con cui drappeggiano sul corpo i lenzuoli che indossano, ma temo che le affinità con il mondo di Siddhartha & company, per me finiscano qui. E tra poco sarà chiaro il perché. Ieri hanno parlato così, il successore di Pietro e il capo del comitato centrale nominato dal ministero per gli Affari religiosi, schierati su fronti opposti, affidando i pensieri agli interpreti. Il Venerabile Bhaddanta Kumarabhivamsa (giuro che il nome è questo), la somma autorità del clero buddista, ha sintetizzato il valore di tutte le fedi e si è spinto fino alla condanna netta del terrorismo e dell’estremismo, frutto di cattive interpretazioni delle religioni, arrivando anche a richiamare la responsabilità dei leader nella realizzazione di un’armoniosa vita sociale. Le sue parole una sintesi del mondo delle nobili verità e dell’illuminazione. Il tutto mostrato con quel distacco invidiabile che appartiene a chi è diventato capace di dominare le passioni.
Diverso il tono di Francesco, che ha spiegato la sua presenza nel luogo simbolo del buddismo birmano come “opportunità” per affermare il comune “impegno per la pace, il rispetto della dignità umana e la giustizia per ogni uomo e donna”. Insomma anche il Papa ha parlato di armonia, richiamando valori comuni: pazienza, tolleranza e compassione, valori che appartengono al cristianesimo come al buddismo. Nel paese con oltre l’87 per cento di seguaci di Buddha, dove i cristiani, come gli islamici Rohingya, sono spesso vittime di soprusi e discriminazioni, ha citato le parole del principe diventato asceta e le ha accostate a quelle del poverello di Assisi, per individuare un compito comune: “guarire le ferite dei conflitti che nel corso degli anni hanno diviso genti diverse culture, etnie e convinzioni religiose”.
Un messaggio che invita a superare ogni forma di incomprensione e di pregiudizio, ma che indica anche a strada da percorrere insieme fianco a fianco. E fin qui tutto bene. Una bella mossa quella del Papa ricordare i principi fondamentali ad una fede, o filosofia come la si voglia interpretare, che quando si trova in schiacciante maggioranza non è esente dalla tentazione della violenza. Ne sanno qualcosa i cattolici che vivono nelle aree del Myanmar roccaforti dei monaci ultra-nazionalisti di Ma Ba Tha, costretti a trasferimenti forzati, ad attacchi durante i momenti di preghiera, ad interrogatori improvvisi. Ma la coerenza evidentemente non è un problema solo cattolico. Il problema per me invece è Buddha che predicava “sconfiggi la rabbia con la non rabbia, sconfiggi il malvagio con la bontà, il menzognero con la verità”. A parte la difficoltà a tenere a bada i miei nervi, mi convince più San Francesco, che mi sembra spostasse l’asticella un pochino più in là. Innanzitutto chiedendo di diventare “strumento di pace” a qualcuno più capace di lui. Dio in persona. “Signore, fa che dov’è odio porti amore, dov’è offesa che io porti il perdono” eccetera. Una bella differenza, sapere di poter contare su qualcuno di più potente, capace di abbracciare i nostri evidentissimi limiti.
Tutto ciò nulla toglie al tentativo, del Pontefice, di trovare alleanze preziose per guarire le tante ferite nel paese del sud-est asiatico, alle prese con ben più di una crisi etnica. Insomma varcare la soglia di una pagoda per lui significa soprattutto mostrare una chiesa che come Gesù, porta il balsamo risanante della misericordia di Dio, e che con rispetto e amore, “aiuta le altre minoranze senza mai forzare o costringere, ma sempre invitando e accogliendo”. Una chiesa che il suo pastore il card. Bo, ha definito “insignificante” ma che forse ha molto da insegnare.