Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in questi anni ha concesso la grazia solo cinque volte, contro le migliaia sottoscritte da Cossiga e dai suoi predecessori. Napolitano non è arrivato a trenta. E questo dà ancora maggior valore alla decisione di graziare Livio Bearzi, che il 6 aprile del 2009 era rettore del Convitto dell’Aquila. Una struttura dell’Ottocento sotto le cui macerie trovarono la morte tre studenti, uno italiano e due stranieri di 14, 14 e 16 anni. Un dramma, che si unì agli altri 306 morti causati dalla violenza del terremoto, dalla cagionevole sicurezza di palazzi e case. Il rettore Bearzi andò sotto processo, affrontò i tre gradi di giudizio e alla fine fu condannato. Colpevole della morte dei tre ragazzi. In cella, uno dei pochi, forse l’unico, per il terremoto dell’Aquila. Una condanna a quattro anni e in aggiunta l’interdizione dai pubblici uffici. 



La sua colpa, secondo i giudici, è stata quella di “omettere di valutare l’enorme pericolo incombente sul vetusto palazzo e il sol fatto di avere consentito la prosecuzione dell’attività”. Colpa del rettore, quindi, la mancata ristrutturazione del vecchio edificio e l’assenza di un piano per la sicurezza. Un palazzo non suo, dove era stato mandato a lavorare. Dove, come in tantissime altri scuole prima del terremoto, non esistevamo piani di sicurezza. Poco importa di chi fosse la proprietà dell’edificio e del perché questo ente pubblico non avesse provveduto ad interventi di messa in sicurezza nel corso degli anni.



Bearzi in carcere c’è stato prima di essere ammesso a svolgere servizi sociali. Aveva infatti ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Trieste l’affidamento in prova ai servizi sociali, che sta tuttora svolgendo con attività di volontariato presso un consorzio che si occupa di accoglienza ai profughi. La misura, confermata nell’aprile 2016 dal Tribunale di Trieste, gli era stata concessa in via provvisoria dal magistrato di sorveglianza di Udine il 23 dicembre 2015. All’epoca il provvedimento gli aveva consentito di uscire dal carcere, in cui era rinchiuso dal 10 novembre 2015 e di prestare servizio in una struttura che accoglie profughi. Bearzi, friulano, i terremoti li conosceva, li aveva sentiti nella sua regione, il Friuli, nell’ormai lontano 1976. Poi il destino lo ha portato all’Aquila. E da qui in carcere.



Mattarella non lo ha graziato della pena principale ma di quella accessoria. Gli ha tolto l’interdizione dai pubblici uffici. Con questo provvedimento Livio Bearzi potrà tornare a scuola. Potrà tornare a lavorare, ma soprattutto a svolgere la sua missione di educatore. Un gesto, quello del presidente della Repubblica, che ha restituito la dignità a un uomo che si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Che se avesse potuto quel reato non lo avrebbe commesso. Che forse non si è neanche reso conto di aver commesso un reato mentre cercava di mettersi in salvo durante la terribile scossa di terremoto.

La parola grazia, in questo caso, potrebbe avere diverse interpretazioni, dipende dall’angolatura sotto cui la si guarda. Offrire a un uomo una seconda possibilità di tornare a svolgere una professione che lo ha fatto sentire una persona coinvolta con i giovani, che lo ha portato a indicare ai ragazzi una strada da percorrere, che ha rischiato di vedere soffocata dalla tragica morte di tre ragazzi, per cui lui stesso ha sofferto, che lui stesso non avrebbe voluto. Una grazia che non è redenzione, che non gli toglie la pena che sta scontando, ma che gli offre la possibilità di ricominciare. Una nuova vita, forse, con gli occhi e l’animo di chi ha sofferto, di chi ha visto la sofferenza del carcere, di chi vive la quotidiana sofferenza di coloro che hanno abbandonato la propria terra in cerca di fortuna o forse solo di possibilità di vivere. 

Una grazia che l’ex rettore del convitto ora potrà condividere con le persone che incontrerà sul suo cammino, soprattutto con i giovani. La quinta grazia di Mattarella, un segnale che dietro ogni decisione del presidente c’è un grande gesto. Che regala umanità. E di questi tempo non è poco. Anzi.