Due ragazze di 14 anni stuprate in un bosco della periferia di Roma da un giovane rom italiano d’origine bosniaca, il 21enne Mario Seferovic, dopo essere state adescate con l’inganno. Una storia squallida, quella riportata da La Repubblica, aggravata dal fatto che l’esecutore dello stupro si fosse addirittura conquistato la fiducia di una delle vittime sul web: sui social aveva assunto il nickname di “Alessio il Sinto”, vantava legami con la famiglia Casamonica, era simpatico e la frequentazione s’era fatta così stretta che la ragazza l’aveva persino presentato alla madre. Quando lui le aveva dato appuntamento in una strada di periferia che dà accesso ad una zona boschiva, la 14enne aveva detto che con lei avrebbe portato un’amica. Lui, per ostentare buona fede, aveva acconsentito senza problemi, aggiungendo che a sua volta avrebbe portato un altro amico. Si tratta di Bilomante Maikon Halilovic, anche lui italiano d’origine bosniaca, ha 26 anni: sarà l’uomo deputato a fare il palo, a controllare che nessuno interrompa la violenza sessuale che Seferovic riserverà ad entrambe le amiche, ammanettate e liberate soltanto dopo lo stupro con la minaccia di non riferire nulla di quanto accaduto, pena la morte loro e delle rispettive famiglie. “Alessio il Sinto”, qualche tempo dopo, avrà perfino la sfacciataggine di telefonare alla mamma della sua vittima, le chiederà di interagire per lui visto che la figlia non vuole più vederlo. Forse è un modo per verificare che la ragazzina non abbia parlato: non sa, però, che di fronte alle insistenze materne, la giovane crollerà sotto il peso di quell’orribile violenza confidando tutto ai genitori e dando il via alle indagini che porteranno al suo arresto.
IL GIP, “ATTO FEROCE E PREMEDITATO”
Il gip Costantino De Robbio, che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare per Mario Seferovic e Bilomante Maikon Halilovic, è certo che “lo stupro è stato compiuto con estrema freddezza e determinazione unite ad un’ assoluta mancanza di scrupoli e a una non comune ferocia verso le vittime“. Nel provvedimento di sei pagine, il giudice per le indagini preliminari spiega che “il carcere è l’unica misura idonea per impedire il pericolo di inquinamento probatorio viste le minacce di morte rivolte alle minori perché non rivelassero lo stupro”. Del resto nei confronti dei due rom italiani d’origine bosniaca si può agire con relativa certezza dal momento che “e due vittime “hanno ricostruito in maniera non contraddittoria lo stupro e hanno dato particolari utili per l’identificazione del complice di Seferovic da entrambe indicate con il nome di Cristian“. Ad aggravare il quadro di un atto così orripilante vi sarebbe poi anche la premeditazione: De Robbio scrive che “la scelta del luogo è un primo, importante elemento che dimostra la premeditazione del delitto, così come l’utilizzo delle manette che il reo aveva portato con sé con l’inequivocabile intento di farne uso per legare le vittime ed impedire loro di fuggire durante lo stupro programmato”. Inoltre per il giudice “il ricorso a un complice demandato a sorvegliare l’accesso al vicolo per consentire la violenza carnale senza timore di essere interrotti” ed aumentare la paura nelle vittime “aggrava ulteriormente un fatto già di per sé estremamente allarmante“.