PARADISE PAPERS. I ricchi non evadono, eludono. Se evadi possono essere guai. Se eludi, è tutto regolare. La differenza non la fa la sottigliezza lessicale, ma il paradiso fiscale. Il paradiso fiscale è un arcipelago di nomi che sfido chiunque a ricordarseli, a parte Caiman, e a rintracciarli sulla carta geografica, a parte forse Malta. Ma è lì che chi ha tanti quattrini trova la giusta società offshore, che al massimo del mobilio è una scrivania con un telefono, cioè una finzione, che consente però di ottenere legalmente profitti non tassati investendo denari di cui nessuno ti chiederà mai il certificato di nascita.



Il fenomeno non è una novità. E’ una costante da un bel po’ di anni, con i tratti di una specie di economia parallela mondiale che travalica confini statali, ideologie, religioni, tutto, all’insegna del “Paperoni di tutto il mondo unitevi”, nobili o parvenu, alti funzionari o mega-criminali che siano. Tanto c’è il diritto alla privacy.



Nello stesso reticolo di bunker finanziari il carico d’oro della regina Elisabetta condivide l’avventura di quello della collega di Giordania, della rock-star Madonna, di Bono degli U2, dell”ex generale Wesley Clark, già comandante supremo della Nato in Europa. del co-fondatore della Microsoft, Paul Allen, del tesoriere del primo ministro canadese Justin Trudeau. Del finanziere “democratico” George Soros.

Il segretario al commercio Usa ha una partecipazione, coperta da società offshore, in una compagnia di navigazione controllata dalla cerchia più vicina al presidente russo. E dietro massicci investimenti in Facebook e Twitter ora spuntano colossi del gas e banche statali di Mosca. Emiri, anche emiri.



Le carte segrete dei paradisi fiscali svelano le falle nei controlli anti-riciclaggio: numeri in codice per coprire principi sauditi, parlamentari americani, oligarchi russi e funzionari corrotti. Una gaia brigata.

Brooke Harrington, docente della Copenhagen Business School, autrice del libro Capitale senza frontiere: i manager della ricchezza e l’uno per cento, definisce l’élite mondiale favorita dalle offshore  “un piccolo gruppo di persone non soggette alla legge”.

Il “piccolo gruppo” che viene ora alla ribalta è composto da 120 nomi eccellenti, pescati in un mare di 13 milioni di documenti (avete letto bene, 13 milioni)  ottenuti dal giornale tedesco Suddeutsche Zeitung, che li ha condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij). Documenti studiati e analizzati da più di 380 giornalisti, attivi in 67 paesi e 96 media di tutto il mondo, tra cui New York Times, Guardian, Le Monde, Bbc, che l’Espresso pubblica in esclusiva per l’Italia insieme con Report, la trasmissione d’inchiesta di Raitre.

L’internazionale del profitto. L’internazionale del potere. E poi l’internazionale delle molestie sessuali, come torna a emergere di questi tempi da Holliwood in giù.

Che dire, così, su due piedi? Ripensare alla profezia di Eliot nei Cori dalla Rocca: “Gli uomini hanno dimenticato tutti gli dei, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere”.

Girano i marroni, e di brutto, a pensare che il fisco sempre più tende a disossare chi lavora e produce con olio di gomito e rischio di impresa. Però, più che assaltare il Palazzo d’inverno come verrebbe voglia, conviene seguire ancora Eliot: “In luoghi abbandonati/ Noi costruiremo con mattoni nuovi/ Dove i mattoni son caduti/Costruiremo con pietra nuova/ Una Chiesa per tutti/ E un impiego per ciascuno/ Ognuno al suo lavoro”. Dura, eh? Ma è l’unica.