Popeye si dice pentito, ma non troppo, anche se la sua vita ha effettivamente cambiato registro dopo essere uscito dal carcere: «di certo sono un pessimo esempio per i giovani, sono la dimostrazione del fatto che puoi uccidere, stare in galera per 23 anni e poi rifarti una vita», ha spiegato in una recente intervista a Sette, il settimanale del Corriere della Sera. Jhon Jairo Velásquez Vásquez ha un giudizio chiaro sulla sua sbagliata condotta, anche se poi ogni tanto si lascia “andare” a commenti che dire alquanto “spiazzanti” è fare un complimento, tipo quando spiega che «Se Medellín è una città rispettata nel mondo è solo merito di Escobar». Resta il suo impegno per far capire e spiegare per davvero come funzioni oggi il narcotraffico, al di fuori della “mitologia” che sta montando specie dopo le serie di successo su Netflix dedicate al trafficante più famoso al mondo. «Alla morte di Escobar, i politici colombiani e americani cantarono vittoria. Ma sapete che cosa è successo da quel momento? Che è iniziato il vero narcotraffico. Escobar esportava cocaina solo negli Stati Uniti. Oggi la merce arriva in Europa, Africa, Emirati Arabi, Cina, perfino in Australia. E i maggiori mercati sono l’Inghilterra e la Russia». Secondo Popeye l’ex sicario, la Mafia oggi è molto più intelligente in Colombia: «Hanno imparato dai nostri errori, non ostentano più violenza e denaro. Le loro donne non vestono in maniera appariscente. Se vedi una Porsche per strada è di un commerciante o un imprenditore. La mafia in Colombia non si mostra, adesso è più intelligente perché i figli dei vecchi narcos sono stati mandati a studiare in Europa e negli Stati Uniti. E un mafioso educato non ostenta», spiegava sempre su Sette la sua incredibile e inquietante storia. (agg. di Niccolò Magnani)
ASSASSINO E IDOLO DEL WEB
In Colombia, Jhon Jairo Velásquez Vásquez, viene ancora conosciuto come “Popeye”: un riferimento a quei modi buffi e spacconi alla Braccio di Ferro. Di simpatico, però, nella vita del sicario di Pablo Escobar c’è ben poco. Perché se vivi nella Colombia in cui infiamma la guerra tra il potere centrale e il cartello del narcotraffico, allora è chiaro che difficilmente potrai uscirne senza macchiarti di sangue. Popeye di omicidi sulle spalle ne ha 250, ma con “El Patron” dice di averne pianificati almeno 3000. Un legame solidissimo, per quanto alla fine si dica che a tradirlo sia stato proprio lui: Popeye, consegnatosi alle autorità nel 1992. La morte di Escobar arriverà soltanto un anno dopo. Il suo sicario trascorre in prigione 23 lunghissimi anni: capisce che in gattabuia non vorrà tornarci mai più. Quando esce decide di fare tesoro della sua esperienza da criminale pluripregiudicato: scrive due libri, un terzo è in preparazione, nel frattempo il suo canale YouTube (Popeye Arrependito) vanta mezzo milione di iscritti. Sono numeri da capogiro: il sicario è diventato star.
POPEYE, “UCCIDERE PIACE A TUTTI”
Della storia di Popeye, sicario di Pablo Escobar, si parlerà anche stasera a Le Iene Show, il programma di Italia Uno che ha inviato in Colombia, allo scopo di incontrarlo, Giulio Golia. Non è la prima volta che che Popeye concede interviste. Contatto da Vice News nell’aprile del 2016, il killer aveva accettato un incontro in una tavola calda del quartiere benestante di El Poblado, a Medellín. In quest’occasione Popeye aveva spiegato dove tutto ha inizio e quale può essere il percorso per la redenzione delle prossime generazioni:”La via d’uscita è l’educazione, non il carcere o una pallottola. Sa qual è la scuola dei sicari? La violenza in famiglia. Quando i genitori a casa non si rispettano, quando i bambini vedono il padre picchiare la madre… È il contesto a creare un bandito. Se una persona cresce con il padre sempre ubriaco è normale che diventi una persona cattiva. Bisogna lavorare con i genitori, parlare con loro. Spiegare che non devono fumare marijuana o sigarette, che devono smetterla con la cocaina. Che se vogliono discutere devono andare da un’altra parte. Che gli uomini non devono picchiare le proprie donne. Che non devono dire parolacce davanti ai figli. E che devono farsi vedere dai propri bambini mentre leggono”. Alcune dichiarazioni di Popeye, per quanto sincere, hanno destato un certo sconcerto:”A tutti noi piace uccidere. Perché siamo cresciuti in famiglie violente, in quartieri agitati. È scontato diventare violenti quando si cresce in un quartiere violento (…). Non puoi togliere a un giovane l’adrenalina del combattimenti. Vuole uccidere? Sì. Vuole sparare? Sì. Vuole buttarsi da un aeroplano? Sì. Vuole pilotare un elicottero? Sì. Bene, esistono la Marina, l’Infantería de Marina, l’aviazione, l’Esercito, la Polizia nazionale. Ci sono cinque forze professionali. Spara e uccidi, co****ne. La legge dice che devi gridare tre volte prima di sparare? Grida due volte e se te lo chiedono dì che hai gridato tre. Bang! E una pallottola nella testa di quel figlio di pu***na. Però con la Costituzione in mano. Così si risolve il problema del senso di appartenenza“.
IL TASSISTA GRAZIATO
Nel corso dell’intervista concessa a Vice, il sicario di Escobar ha risposto così al giornalista che gli domandava se tutti i 250 omicidi di cui si è macchiato fossero necessari:”Una volta a Cartagine abbiamo affrontato la polizia. Ci colpirono la macchina e dovemmo andarcene in taxi. Poi il tassista si inginocchiò davanti a me, mi mostrò la foto della sua famiglia. Però era necessario ucciderlo perché ci aveva visti andarcene. Quindi gli dissi: “Le permetto di andarsene per i suoi figli”. E gli diedi 500.000 pesos [167 dollari]. Otto ore dopo ero a terra colpito da un proiettile, mentre la polizia mi prendeva a calci. Ma chi mi dava più calci era il tassista. Da allora non ho mai più perdonato nessun figlio di puttana. “Che ho tre figli…”. Pum, pum pum! Beccati una pallottola per ognuno dei tuoi figli. Quando sei in guerra, sei in guerra”. Per quanto la storia dica che sia stato proprio Popeye a tradire Pablo Escobar, all’interlocutore che gli domanda se gli manchi “El Patron”, il killer risponde:”Molto. Quando ero in prigione lo sognavo spesso. Sognavo che uscivo dal carcere e arrivavo in un nascondiglio dove c’era lui. Ma ogni volta mi faceva pagare il fatto che quando mi ero consegnato avevo fatto la spia. Quando mi hanno scarcerato non l’ho più sognato”. Pentito? “Dico sempre 50 e 50. Ma se mai lo rivedrò imbracceremo il fucile un’altra volta… (ride, ndr)“.