C’è una vicenda in questo ultimo scorcio di legislatura che più di altre fa cogliere il punto decisivo di questo momento storico, una vicenda passata in sordina, ma decisiva per comprendere tante delle dinamiche in atto nella nostra società. Da alcuni mesi l’Ilva, una delle più importanti aziende italiane, è passata sotto il controllo di una cordata a guida francese. Il piano ha visto un impegno diretto del governo di Roma, che ha permesso che un asset strategico della nostra industria finisse in mano “straniere” a patto che si mantenessero quasi intatte le prospettive occupazionali di più di 14mila lavoratori. 



Il fatto è che, dopo diverse altalene nelle trattative, alla vigilia del tavolo che mercoledì dovrà definire il piano industriale della nuova Ilva, e quindi il reale fabbisogno di posti di lavoro, l’unità sindacale e istituzionale fin qui respirata si è clamorosamente interrotta nella sede dell’Ilva di Genova: la Fiom Cgil ha avuto paura che dietro le promesse si nascondesse una fregatura, forse suffragata da diversi indizi e da alcune prove, e ha preteso — come precondizione per sedersi a quel tavolo —– che tutti i 14mila posti della fallimentare impresa italiana siano effettivamente tutelati. 



La domanda che in questi casi ci si fa è molto semplice: chi ha ragione? Si può ragionare secondo uno schema ideologico e, quindi, affermare senza mezzi termini che ristrutturare un’azienda richiede sacrifici e che il mercato del lavoro nel 2017 deve essere agile e flessibile. D’altro canto si potrebbe invece sottolineare come la piena occupazione è un valore da salvaguardare e che non può essere sacrificato sull’altare dell’efficienza e del profitto. La questione dirimente è che questo schema si ripresenta identico a se stesso in ogni circostanza della vita civile e personale: un problema e la solita domanda su chi, effettivamente, abbia ragione, condita con i “pro” e i “contra” che solitamente discendono sempre da una lettura ideologica degli eventi. Nella vita istituzionale del nostro paese, come nei rapporti con gli amici o tra marito e moglie, determinare una conclusione che vada a rafforzare ciò che già pensiamo — sia che si parli di Chiesa o di lavoro — è forse una delle tentazioni più in voga nel nostro tempo. 



Di che cos’è che si ha paura? Perché questa violenza è così forte? Il motivo è quasi banale: l’uomo teme di dover vivere di fronte a qualcuno. Il peccato originale racconta di un Adamo che, improvvisamente, non sa più stare davanti al volto di Dio e si nasconde, lasciando prevalere — è lui stesso a dirlo — il pensiero che egli aveva su Dio rispetto al rapporto che fino ad allora si era sviluppato e costruito. Quando l’uomo non sta di fronte a niente allora è il tempo delle tenebre, di un’oscurità in cui domina l’idea a scapito della realtà. 

A chi stare di fronte nella vicenda dell’Ilva? A chi stare di fronte in un rapporto di lavoro o in una relazione affettiva? Qualcuno direbbe: stiamo di fronte al Mistero. Ma la stessa parola “Mistero” è astratta, non significa nulla se non quello che noi abbiamo già deciso essere il Mistero. E’ vero: occorre stare di fronte al Mistero, ma occorre capire che carne abbia questo Mistero. E allora, direbbero altri, “stiamo di fronte all’altro, al tu dell’altro”. Anche questo è vero: abbiamo bisogno di stare gli uni di fronte agli altri. Ma l’altro, a volte, è pretesa, è capriccio, è ostinazione. Non lo vogliamo ammettere, ma in ogni “tu” noi sappiamo che c’è qualcosa che non va, che non torna. E quindi stare di fronte all’altro vorrebbe, in definitiva, significare “stare di fronte a quello che io credo già di sapere o di conoscere dell’altro”. Nel caso dell’Ilva non ha senso dire: “stiamo di fronte alle esigenze dell’imprese”, né “stiamo di fronte alle esigenze dei lavoratori”. Invece ha senso dire che tutti coloro che stanno vivendo questo frangente della storia dovrebbero imparare a stare di fronte a sé, al desiderio che hanno dentro e che li definisce in quanto uomini. Sia i nuovi padroni dell’Ilva sia i lavoratori desiderano essere felici, desiderano lavorare per trasformare la realtà e ottenere, mediante il denaro, una caparra di quella promessa che la vita ci ha fatto. 

Il punto è che non se ne accorgono, non se lo dicono. Ed evitando questa comunicazione di sé si ritrovano più sordi, più soli, più in balia dei loro pensieri. 

La rivoluzione all’Ilva, la rivoluzione in Italia, nasce da un uomo che inizia ad amare il desiderio che ha dentro, la verità di sé, più di se stesso, più di tutti gli schemi e le ideologie con cui inquadra e definisce se stesso. Ci vuole un miracolo! Occorre che accada qualcosa per cui diventi più importante la propria umanità, il proprio cuore, rispetto a tutto il resto. Immaginate se domani mattina uno di noi fosse così libero verso se stesso da iniziare a vedere nel volto dell’altro che odia, o che gli è antagonista, un riflesso del proprio volto. Sarebbe la nascita di un nuovo modo di essere sindacato, sarebbe la nascita dell’unico tipo di lavoratore di cui questo nostro paese ha bisogno: il contadino. Colui che ben sa che è nel seme che decidi di coltivare che si gioca tutta la partita. Anche fra le mura di casa, anche all’Ilva.

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