Si conclude il commento di Roberto Colombo al ddl in discussione al Senato sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Leggi qui il primo articolo e qui il secondo articolo.
Il dibattito in corso dentro e fuori il Senato sul disegno di legge “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (Dat) non solo mi appare come segnato dal travisamento pubblico della natura e delle conseguenze di quanto disposto dal testo della legge, ormai prossima all’approvazione, e da un uso strumentale delle recenti parole di Papa Francesco in riferimento alla cura dei malati gravi e dei morenti, ma intravvedo in esso il disconoscimento dell’onerosissimo peso per la scienza e la coscienza del medico che si vorrebbe imporre: quello di farsi carico, negli stessi luoghi della cura clinica, di azioni che concorrono formalmente e materialmente alla realizzazione di un suicidio intenzionale medicalmente assistito.
Non intendo qui aprire la vexata quaestio sulla considerazione sociale e giuridica del suicidio, che ha visto confrontarsi e scontrarsi per secoli correnti di pensiero e autori antichi e moderni. Il giudizio morale sempre gravemente negativo della Chiesa sull’atto del suicidio non esclude — anzi esige — un’attenzione particolare di amore, di prossimità e di premurosa cura verso quanti, a motivo della gravosità della loro condizione clinica e delle sofferenze psicologiche, affettive e spirituali che essa comporta (al di là della sedazione del dolore, oggi ampiamente possibile nell’ambito delle cure palliative) sono portati a ideare o a realizzare il gesto estremo del togliersi la vita. La vita è sempre un bene (individuale e sociale) fondamentale, ed è indisponibile per l’uomo che l’ha ricevuta da Dio e può solo offrirla a Lui perché la conduca al suo destino, secondo l’infinito amore che Egli ha per ogni sua creatura, in particolare per quella sofferente.
Ma non sempre ad ogni donna e uomo è dato di riconoscere il bene della propria vita, di accettarlo e di valorizzarlo in tutte le circostanze in cui ci si può trovare. Quelle della sofferenza nel corpo, nella mente o nello spirito sono condizioni che possono portare — in casi estremi — a invocare la morte e a chiedere a chi presta assistenza, a coloro che si prendono cura di questa sofferenza, di collaborare alla realizzazione di un suicidio. Ed è anche possibile che — nonostante la prossimità quotidiana dei propri cari e del personale di assistenza, le amorevoli cure, i dialoghi intensi e drammatici, la testimonianza di chi è amico, e la preghiera incessante rivolta a Dio dal credente — il malato non desista dal suo proposito e chieda inequivocabilmente e insistentemente di poter togliersi la vita. Pur nel frangente drammaticissimo di questa estrema possibilità, non è comunque moralmente lecito a nessuno abdicare alla propria coscienza e collaborare ad un suicidio, né si può chiedere a lui o a lei di farlo. Una simile richiesta, da qualunque parte provenga (il malato stesso, i suoi familiari o amici, la società attraverso una legge dello Stato o una sentenza giudiziaria) non può in alcun modo essere cogente, vincolante per chi la riceve. Non vi è obbligo morale di onorarla.
Anche se la norma giuridica può depenalizzare il tentato suicidio e il giudice decidere, in alcuni casi, di non condannare parenti o amici o addirittura singoli medici o infermieri che hanno collaborato, a titolo personale, alla realizzazione del suicidio di un soggetto malato e sofferente (non mi addentro qui in una valutazione né delle norme né delle sentenze giudiziarie), gravissimo e inaccettabile mi appare che una legge preveda che ad anticipare la morte di un malato su sua richiesta vengano chiamati medici e infermieri che operano come tali su mandato e in strutture del Servizio sanitario nazionale (Ssn), oppure autorizzate da (o convenzionate con) esso. Non è qui in gioco soltanto — e già basterebbe questo — la coscienza individuale del singolo operatore sanitario, che in nessun caso, in uno Stato democratico e rispettoso della dignità di ogni suo cittadino, dovrebbe venire violata. C’è di più, e questo chiama in causa la stessa figura — istituzionalmente rilevante per lo Stato oltre che socialmente riconosciuta — della professione medica e infermieristica.
Per vocazione personale, per formazione ed educazione nei corsi di laurea e di specializzazione, per l’abilitazione all’esercizio della professione, per accoglienza nella comunità medica o infermieristica nazionale attraverso l’iscrizione agli ordini, e per missione quotidiana, il medico e l’infermiere sono fatti per affrontare la malattia, per cercare di strappare alla morte i malati, per curarli sempre e comunque, e per alleviare la loro sofferenza. Non sono fatti — i medici e gli infermieri — per desistere dal prendersi cura di un paziente, anche in condizioni gravissime e disperate, per abbandonarlo quando traspare sul suo volto la opprimente fatica di vivere, per dare a lei o a lui la morte, neanche quella dall’apparenza “dolce” e “suadente” dell’eutanasia che non somministra una molecola a dosi letali, ma prende la forma grigia e defilata della sospensione di un trattamento proporzionato alla sua condizione clinica ed essenziale per mantenere in vita il malato.
I giovani non scelgono di diventare medici e infermieri per offrire la morte su richiesta ma per fare tutto il realisticamente e ragionevolmente possibile — che imparano frequentando l’università e un policlinico universitario — per restituire la salute, allontanare la morte, calmare il dolore e riabilitare alla vita. I professori di facoltà e i maestri nelle cliniche, nelle chirurgie e nelle diagnostiche che li accompagnano con passione e dedizione nei tirocini pratici non sono lì per insegnare loro a togliere la vita, ma a strappare dalla morte, restituire alla vita e riconsegnare i pazienti agli affetti e alle cure dei loro cari. L’abilitazione delle professioni sanitarie non è una licenza di uccidere ma un brevetto per salvare.
I medici e gli infermieri in servizio non possono guardare ogni giorno il volto dei loro colleghi — condividendo turni di servizio, giorni e notti, l’incessante lavoro nelle sale, nelle corsie e negli ambulatori, il pasto in mensa o un caffè in reparto — pensando che loro stessi o qualcun altro possa venire chiamato, sotto l’egida di una legge, ad eseguire il compito di togliere la vita a coloro che essi stessi hanno curato con competenza, passione e dedizione grande per mesi o anni, accompagnandoli ogni giorno nella malattia, dialogando con loro, condividendo i successi o gli insuccessi di una terapia, i dolori, le consolazioni e le speranze di un percorso di cura. Pensare a un simile mandato dettato per legge agli operatori sanitari mi appare come un compito negatore di un patto di alleanza, di una prossimità non negoziabile, di una dedizione incondizionata che sono scritte indelebilmente nella mente e nel cuore di ogni medico e infermiere.
Infine, i cittadini, quando varcano la soglia di un ospedale, si mettono il pigiama e si distendono sul letto della camera, o giungono in emergenza e gravi condizioni con l’ambulanza o l’elisoccorso, non possono concepire che chi ha il camice bianco o la divisa infermieristica possa essere chiamato ad altro che a quello che si attendono da essi: prendersi cura fino all’ultimo minuto della loro persona, senza desistere un istante prima di vedere che nulla può ormai più allontanare la loro morte. Chi esercita la professione medica e infermieristica lo sa bene: quante volte una mano tesa del malato ti stringe forte la tua, con un gesto che dice “non mi abbandonare alla morte”?
Il suicidio assistito, se proprio deve esistere in una società civile perché una maggioranza politica insistentemente lo vuole, non può essere un suicidio medicalmente assistito. La medicina non è fatta per questo e i medici non sono disposti a questo. Chi ne ha il coraggio e se ne assume la tremenda responsabilità si faccia avanti, ma non negli ospedali e nelle cliniche al pari di un atto medico o infermieristico. Nella vicina Svizzera — talvolta citata come terra esemplare di migrazione per trovare la morte su richiesta del malato — i luoghi del suicidio assistito non sono né ospedali cantonali, né cliniche mediche e neppure case di cura. Sono delle residenze a pagamento per morituri. E chi “assiste” il suicidio non svolge un servizio pubblico, ma privato. Così, almeno, è evidente che la medicina — socialmente riconosciuta, apprezzata, sostenuta e organizzata — è tutt’altra cosa.
(3 – fine. Leggi qui il primo articolo e qui il secondo articolo)