Con un’accelerazione impressa dalla fine della legislatura (ma forse, ancor di più, da calcoli politici sollevati dall’ormai imminente campagna elettorale), il Senato ha approvato a tempo di record il testo definitivo della cosiddetta legge sul biotestamento, avvalendosi a questo fine anche di procedure parlamentari che hanno consentito di dribblare la discussione sulla gran parte degli emendamenti presentati. 



Sulle pagine di questo quotidiano ci eravamo già espressi sull’opportunità di regolare attraverso lo strumento della legge ordinaria una materia tanto delicata come quella in esame. Come testimoniano i noti interventi giurisdizionali, la materia del fine vita è connotata da delicatissime e spesso drammatiche vicende umane, che difficilmente possono essere regolate in modo generale ed astratto o a seguito dell’introduzione nell’ordinamento di diritti e/o doveri fino a qualche tempo fa estranei al nostro ordinamento giuridico. 



A saper osservare la realtà, infatti, le vicende sul fine vita testimoniano innanzitutto la nascita di rapporti umani personalissimi tra il paziente e i medici curanti che meritano di essere guardati prima ancora che regolati o giudicati e rispetto ai quali la migliore soluzione sarebbe forse quella di far sì che il diritto non entri a gamba tesa.

Questa considerazione merita però di essere contestualizzata nell’attuale quadro giurisprudenziale, che rende opportuna la scelta di regolare la materia per via legislativa anche al fine di fornire criteri in grado di orientare l’attività dei giudici chiamati a decidere sui singoli ricorsi. È alla luce di tale considerazione teorica che merita dunque di essere analizzata la legge oggi approvata.



Sotto questo profilo, una delle novità più rilevanti introdotte dalla legge è il tentativo di codificare la cosiddetta alleanza terapeutica come modello che definisce il rapporto tra medico e paziente. Con questa legge, in sostanza, il diritto si pone come terzo elemento all’interno di un rapporto tradizionalmente bilaterale e che, complice la visione personalista offerta dalla nostra Carta costituzionale quale habitus da estendere anche a tutti i rapporti sociali, mira ad una cristallizzata simmetria tra medico e paziente. 

Questo afflato buono lascia comunque alcune zone d’ombra che sono state sottratte al dibattito. Tra queste non possono essere taciuti i nodi più spinosi emersi negli ultimi anni da casi giuridici che molto hanno interrogato l’opinione pubblica nel nostro Paese come, ad esempio, la previsione dell’idratazione e nutrizione artificiali quali trattamenti sanitari. La legge accoglie tale qualificazione facendo da ciò discendere la possibilità per il paziente di esprimere su di essi il proprio rifiuto; una previsione che non circoscrive però la sua efficacia a casi specifici (come quelli in cui la condizione clinica del paziente sia in procinto del suo più tragico epilogo) ma che, per come redatta, potrebbe essere applicata ad una generalità di situazioni che vanno oltre le note vicende di Eluana Englaro. 

Analogamente, altro nodo irrisolto è quello relativo alla mancata previsione di forme di compensazione per la insita non attualità delle disposizioni anticipate che — pur revocabili in qualsiasi momento dal disponente — potrebbero divenire operative ad anni di distanza dalla loro redazione. 

Da ultimo, a parere di chi scrive, l’aspetto forse più critico della legge sul biotestamento riguarda la scelta di orientare l’intero intervento legislativo riconoscendo come sua pietra angolare il solo principio dell’autodeterminazione del paziente. La prima conseguenza di ciò è che, espressamente, le disposizioni disegnano una sfera di irresponsabilità del medico (campo civile e penale) qualora questi tenga una posizione di ossequioso adempimento della volontà del paziente. 

L’enfasi attribuita a tale principio finisce così con il dimenticare completamente l’altra libertà che necessariamente entra in gioco nei casi di fine vita: quella del medico stesso. Il riferimento evidente è all’obiezione di coscienza: se durante i lavori parlamentari si è parlato dell’introduzione di una clausola di coscienza, tale clausola — così come oggi codificata — si rivela insufficiente al suo scopo. La previsione della irresponsabilità del medico nel disattendere la volontà del paziente che richiede trattamenti contrari alla legge, alla deontologia professionale e alle buone pratiche clinico-assistenziali non rappresenta una norma capace di garantire la coscienza e la libertà più intima del medico; lo stesso può dirsi per l’altra forma di esenzione di responsabilità che copre il medico inadempiente rispetto alle disposizioni anticipate quando queste ultime appaiano incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente, oppure nel caso in cui la scienza medica abbia introdotto terapie non prevedibili al tempo della sottoscrizione delle disposizioni e che siano in grado di offrire concrete possibilità di trattamento.

Se l’architrave dei nostri ordinamenti è infatti la libertà del soggetto, non si può non chiedersi quale posto sarà concretamente riservato in futuro all’obiezione di coscienza, strumento sempre più fondamentale per far convivere pacificamente le diverse visioni sulla vita che animano ormai le nostre società plurali.