Le raccomandazioni rivolte alla Chiesa Cattolica dalla Royal Commission australiana fanno discutere. Attenuare il segreto confessionale o rivedere il celibato dei preti sembrano infatti indebite intromissioni di un organismo legittimo che ha dovuto affrontare anni di abusi sessuali ai danni di minori perpetrati non solo in abito cattolico, ma che in seno alla Chiesa suscitano evidentemente più orrore e riprovazione.
Eppure quei consigli sono oggi usati come grimaldelli per un disegno più complessivo di riforma del cattolicesimo romano. E’ in particolare il celibato dei sacerdoti ad essere finito sotto la lente di ingrandimento di alcuni commentatori, auspicando non solo che questi inviti della commissione australiana possano essere l’occasione per aprire all’interno della cattolicità un dibattito sull’identità del prete, ma spingendosi a chiedere di distinguere — per la tenuta delle stesse comunità — l’istituto del sacerdozio dal celibato stesso e dalla necessità che esso sia esercitato da figure maschili.
Senza dubbio il clero oggi attraversa nella Chiesa di Roma un momento difficile. Esso, tuttavia, è una conseguenza più ampia del vero problema, ovvero del problema della fede. Non si tratta in questa sede di lamentare ancora una volta la mancanza di fede che determina i nostri tempi, ma la necessità che le parole della fede ritornino ad essere per la persona una vera esperienza. E’ importante precisare che finché la fede non diventa un’esperienza di se stessi, della propria umanità alle prese con il mistero della vita e il mistero di Dio, essa si riduce ad un insieme di espressioni e di azioni vuote. Il celibato si comprende in profondità solo dentro un cammino di riconquista dell’eredità dei padri attraverso la libertà personale di ciascuno. Essere celibi non significa disporsi nel miglior modo per gestire un potere o per amministrare un sacramento, ma partecipare a quel rapporto totalizzante con il Padre che ha permesso a Cristo di fare spazio — nella Sua storia — alla nostra storia. Il celibato non è l’esperienza di un vuoto, ma di un’attesa incommensurabile, di una ferita drammatica, di cui Dio si prende cura attraverso i fatti che accadono a ciascun celibe.
Il celibato può quindi provocare sofferenza, certamente infiniti istanti di silenzio, ma ciò accade perché esso riapre nel cuore della persona che lo abbraccia l’esigenza del Mistero, l’attesa di una Grazia che lo raggiunga quotidianamente attraverso il volto dell’altro.
La Chiesa di Roma ha scelto di chiamare al sacerdozio ordinato solo coloro che decidono di vivere questa dimensione drammatica dell’esistenza, questa apertura radicale all’Essere e all’accettazione sine conditio della realtà. Si tratta di una norma disciplinare che, come tale, può essere cambiata, ma non si tratta di un’ossessione o di una rigidità bigotta, bensì del riconoscimento che il prete non è colui che comanda o che gestisce la comunità, bensì colui che accoglie nella sua carne la carne degli altri uomini, colui che permette a Dio — e solo a Lui — di prendersi cura delle ferite della vita.
Non è quindi consegnando più potere alle donne, o mettendo in discussione la relazione fra celibato e sacerdozio, che otterremo meno crimini sessuali verso i minori o comunità più fresche e missionarie: le tematiche nemmeno si incrociano. Al contrario, è solo cercando di ricomprendere nella nostra vita le verità che la Chiesa ci ha consegnato attraverso la fede che le parole scritte nella pietra torneranno a pulsare nel segreto di un cuore di carne.
E’ chiaro che queste osservazioni sono solo un primo contributo ad un dibattito importantissimo e per niente secondario. Tuttavia esse oggi non appaiono né scontate né secondarie per quello che è il vero cuore della crisi del cristianesimo contemporaneo: la mancanza di dialogo vero e serrato della proposta cristiana con la libertà e la ragione di ogni singolo uomo. Questo è il cuore di ogni emergenza educativa, affettiva e religiosa: l’assenza di una certezza esistenziale che sgorghi da un’esperienza di sé capace di reggere in un mondo in cui tutto, ma proprio tutto, sembra gridare l’opposto da quello che il cuore del celibe scopre tra i marosi della storia.