Una vacanza, Messico e nuvole, Cancun e Yucatán, Cozumel e poi via alle Cayman. In crociera sei accudito come un bambino, pappa, giochi, gita e nanna. E poi una tragedia, un incidente spaventoso su quelle strade rugose dove camion traballanti e stracarichi sorpassano tricicli zigzaganti. E poi l’infrangersi di lamiere e pensieri un attimo primo lievi ed ora di terrore e morte.
Inevitabile immedesimarsi con quei passeggeri del pullman messicano. Lo stiamo facendo tutti. Siamo esseri umani per fortuna, e non ci è estraneo quel che è capitato a quella gente. Tale e quale a noi.
Io ricordo momenti come quelli che erano negli occhi dei morti e dei feriti. L’allegria dell’avventura esotica e culturale, nella certezza che non può accadere nulla di male, al massimo un’insolazione. Il sentire ciacolare le donne enormi arrivate dalla Georgia e le loro risate che sembrano gorgheggi.
Queste torme accaldate di americani le vediamo aggirarsi anche nelle nostre grandi città come mandrie docili e in fondo benefiche: sono sbarcate da enormi navi a Civitavecchia, a Venezia, a Napoli. Pullman rapido, e scendono sul marciapiede vicino al Colosseo, se ne vanno presto, guardano, spendono, non si accampano alla stazione cercando accoglienza. Non chiedono informazioni: esse sono comprese nel prezzo.
Io l’ho fatto. Proprio in Messico e Caraibi vari. Un conto è vedere questa transumanza dal di fuori, un’altra essere una pecora del gregge. Non è poi tanto male. C’è molta umanità e imperfezione. Ed anche se tutto sembra essere organizzato al millesimo, si vede bene che — per fortuna — esiste un margine che si sottrae alla programmazione anche dei sentimenti. Purtroppo c’è anche qualcosa di tremendo che si può far di tutto per rendere impossibile, ma spacca lo stesso le armature della sicurezza.
In realtà tutto a questo mondo è così precario, e vicende come lo schianto dei croceristi ci avvertono che non siamo nelle nostre mani e neppure in quelle delle multinazionali del viaggio tranquillo garantito.
Sono uno dei tanti che ha fatto quel percorso. Proprio quella stessa strada, quello stesso bus. Ricordo bene. Tutti giù dall’immenso piroscafo, quindi divisi in gruppi, sui torpedoni verso la misteriosa civiltà Maya, con la sua scienza astronomica impensabile, i sacrifici umani, la sua fine strana. Anch’io con la mia famiglia ho viaggiato su quei pullman messicani, con al collo la radiolina per sentire i messaggi e la parlantina della guida, l’invito a coprirsi la testa per il sole di pietra che picchia e ti inebetisce. La cerveza finalmente al baracchino. Le fotografie indossando l’immenso cappello buono per la siesta sull’uscio di casa (e che finirà invece nel ripostiglio delle cianfrusaglie). Chissà quante di queste foto, impresse sul cellulare e ritrovate, consoleranno con la loro allegria chi piange quei morti in Messico.