I quotidiani tradizionali e online hanno riportato spesso in questi mesi all’attenzione pubblica il fenomeno dell’uccisione di donne da parte di uomini. Fanno certamente bene, ma tutto ciò non sembra provocare nell’opinione pubblica, né negli ambiti di responsabilità sociale, una riflessione capace di cogliere la novità del fenomeno, premessa per affrontarne possibili “rimedi”. Tentiamo di dare un contributo.
L’uccisione di tante donne da parte dei loro partner, mariti o “fidanzati”, cioè uomini che le amavano, e non da parte di cosiddetti “maniaci sessuali” o personalità sociopatiche, deve farci riflettere più profondamente, se non vogliamo limitarci a ripetere considerazioni morali o di giudizio culturale già risapute, ma inefficaci ad affrontare il fenomeno.
Certamente ogni caso è anche un caso a sé, per la personalità e la storia delle persone coinvolte: e non vogliamo perciò con queste considerazioni dare un giudizio sulla singola situazione. Ma c’è qualche tratto comune a tanti episodi recenti di “femminicidio” che ci sembra meriti una riflessione a parte.
La richiesta di separazione o di allontanamento (o anche solo di modifica delle condizioni del rapporto medesimo) da parte di una partner che ha condiviso fino a poco prima un sentimento di amore corrisposto, certamente mette in difficoltà qualsiasi uomo, col rischio di forti agiti, e ciò è possibile in qualsiasi epoca. Anche in passato si sono verificati episodi tragici per questo motivo e non vogliamo farne oggetto di riflessione statistica, ma invece di tipo qualitativo, per una prima diversa connotazione che sembra emergere nei fatti odierni: oggi sembrano atti di uomini disperati, non di uomini che affermano ostentatamente col delitto una primitiva concezione del rapporto uomo-donna (di tipo “maschilista-possessivo”) mutuata e condivisa dal loro ambiente culturale. Ieri erano uomini “offesi”, che per una sorta quasi di codice d’onore “dovevano” agire in modo “forte”, altrimenti sarebbero stati ridicolizzati, cioè squalificati nell’opinione pubblica della comunità di appartenenza. Oggi invece sembrano più essere uomini disperati e isolati, senza appartenenza o senza un codice affettivo condiviso con l’ambiente che sia di sostegno alla loro soggettiva identità. Intendiamo per “disperati” proprio quello stato interiore di totale mancanza di speranza per sé, come di un crollo del fondamento stesso della propria esistenza, quindi una situazione di “emergenza” che spinge ad azioni estreme senza margine di riflessione.
Seconda caratteristica di questi tragici episodi: nonostante la “disperazione” così evidente in alcuni dei protagonisti, non sono necessariamente atti di personalità patologiche già conclamate, con pregresse crisi e cure psichiatriche, perché molti di questi uomini sono perfettamente inseriti nel mondo lavorativo e familiare precedente e sono persone che si giudicherebbero (e sono giudicate spesso dai vicini) a buona ragione “perfettamente normali”.
Il terzo elemento comune, salvo poche eccezioni, è il genere sessuale dei protagonisti: gli omicidi sono quasi tutti uomini, e le vittime sono quasi tutte donne, tanto da facilitare la diffusione del neologismo di “femminicidi” fra i giornalisti. Certamente il sesso maschile è più esposto ad agiti violenti, rispetto al sesso femminile: è una realtà di fatto evidente anche nella proporzione fortemente differente fra uomini e donne nella popolazione carceraria di tutto il mondo. Anche questo elemento sarebbe interessante approfondire senza darlo per ovvio: ma rimandiamo ad altra occasione tale approfondimento.
Come clinici possiamo perciò chiederci perché, almeno nel nostro Occidente, possa scattare una follia omicida in uomini innamorati e “normali”, di fronte a richieste di separazione o di modifica della relazione. E non ci accontentiamo della spiegazione che, nonostante il tramonto della cultura maschilista, esistano ancora sacche di maschilismo violento e possessivo, che ignora completamente la pari dignità di uomo e donna. Né ci accontentiamo della spiegazione di latenti patologie pregresse del singolo “femminicida”. Vorremmo andare oltre questi luoghi comuni, che pure hanno le loro buone ragioni.
Il problema nuovo, ci sembra, non è l’eventuale patologia dei protagonisti, ma una idea di amore oggi molto diffusa ed ambigua, che può far emergere fragilità personali altrimenti latenti, soprattutto in soggetti maschili.
Anche molte droghe hanno analogo effetto: ragazzi o uomini fino ad un certo punto perfettamente “normali”, si danno ad azioni violente in preda agli effetti di sostanze chimiche, senza rendersi conto del loro operato se non “dopo” averlo compiuto.
Ma allora perché una delusione amorosa (o semplicemente una crisi nel rapporto di coppia) può portare ad azioni in cui l’omicida non va a “punire” l’eventuale rivale che gli ha tolto l’amore esclusivo, ma uccide la persona amata? Chi in un passato anche recente puniva con la morte il rivale, in fondo affermava ancora una (discutibilissima) possibilità di amore con l’amata. Oggi invece il “femminicida” pone termine definitivamente a qualsiasi possibilità di amore (uccidendo l’amata) proprio in nome dell’amore stesso. O meglio: in forza della disperazione che un certo modo di vivere l’amore gli fa vivere la delusione della non corrispondenza da parte dell’amata.
Che modo di amare si sta diffondendo allora qui da noi?
E’ un amore considerato come una cosa molto importante per il soggetto che lo vive, così importante da esser vissuto come bisogno primario, irrinunciabile, e ciò è molto chiaro nella mente del soggetto innamorato, ma non è “verificato” sulla realtà della relazione con la persona amata, ma solo sul proprio “bisogno” primario soggettivo. Anche qui però c’è un influsso della cultura: siamo in un’epoca che teorizza sempre più la centralità autoreferenziale del “sentire” soggettivo, senza includere nei sentimenti una necessità di confronto “oggettivo”, che tenga veramente conto della realtà, in una sorta di verifica. La sola e semplice attrazione è già chiamata “amore”, non solo dai due diretti interessati, ma anche nei salotti culturali o mediatici. E non sono più sentiti utili e tantomeno necessari i tempi ed i passaggi del tradizionale codice affettivo; nel linguaggio comune e mediatico, “fidanzati” indica indifferentemente qualsiasi coppia: di adolescenti, di conviventi, di partner che si sentono tali, indipendentemente da qualsiasi “riconoscimento” della comunità circostante. Si è “riconosciuti” solo dal partner, che diventa così il sostegno personale identitario più delicato e profondo, in una logica narcisistica (non a caso la nostra epoca è chiamata l’era del narcisismo: cfr. Cesareo, ecc.)
I casi di “femminicidio” sono un caso estremizzato di questa concezione di amore: il proprio “sentire soggettivo”, esaltato nel suo significato e valore assoluto, non ammette deroghe alla propria immaginazione, ed è privo di fondamenti “oggettivi” che lo rinforzino di fronte alla prova della relazione reale. Pertanto spesso il marito (o partner convivente) non riesce ad affrontare la difficoltà del differenziarsi dell’altra persona (che magari desidera semplicemente modalità diverse di rapporto o rapportarsi in modo non così esclusivo, non necessariamente “separarsi” nel senso giuridico del termine: anche se poi tante volte la separazione rimane di fatto l’unica via d’uscita, di fronte all’impossibilità di un confronto).
In questi casi estremi riteniamo che il protagonista di questo “amore”, così chiuso ed assolutizzato, sentendosi privato di un sostegno essenziale alla propria persona, sia disperato come di fronte alla perdita della vita, perché di fronte alla separazione o anche solo all’individuazione del partner si sente perduto, privato ingiustamente del suo stesso fondamento personale identitario. Perché manca del tutto nell’autore di questi delitti una “presenza a se stesso”, sostituita completamente dalla presenza dell’altro come strumento di riconoscimento di sé, del proprio esistere. Privato di ciò che “sente come amore” per l’altra persona, si sente privato della vita stessa. Perciò “punisce” (non certo con fredda consapevolezza, ma solo per un istintivo “attaccamento”) con analogo mezzo l'”oggetto” del suo “amore”, privandolo della vita.
E’ un’idea dell’amore come bisogno personale identitario così intenso da esser analogo al “diritto istintivo” alla vita, ma senza uno spazio di consapevolezza comunicabile, se non con un atto estremo. Questo ci sembra essere alla base di tanti gesti disperati, che poi si concludono con il consegnarsi all’autorità giudiziaria, dopo il delitto da parte del “femminicida”: solo l’atto rende parzialmente consapevoli di qualcosa di “sbagliato” nel confronto col reale, ma prima di questo manca qualsiasi consapevolezza della china su cui ci si è messi, presi da questo “amore romantico” che porta a ritenere inevitabile che “senza di te non posso vivere”.
La radice di questa concezione di amore estremizzato è dunque certamente romantica, non nuova. Nel primo romanticismo però l’innamorato deluso dalla non corrispondenza dell’amata si suicidava (cfr. il giovane Werther e Jacopo Ortis), non faceva fuori l’amata come “colpevole” della non corrispondenza. Ce la si prendeva piuttosto col destino crudele, che ingigantiva la sofferenza e la statura dell’amante.
Oggi invece ce la si prende con “l’amata”, perché è lei che non capisce il mio “bisogno” perfettamente legittimo, quindi il mio “diritto” di averla sempre con me come ho immaginato. Un legame che viene chiamato “amore”, ma in realtà è ben altro: è un bisogno di esser riconosciuto tout-court, riconosciuto come capace di amare, di esser felice e render felice qualcuno, in questa epoca in cui l’essere felici sembra un “dovere” e la sofferenza solo una sconfitta (narcisistica). Ciò impedisce di rivolgere uno sguardo all’altro (al partner) in una relazione reale che possa arricchire e produrre cambiamento, maturazione, attraverso un faticoso confronto, perché la relazione stessa è ridotta al solo funzionale soddisfacimento di tali bisogno-diritto, chiamato “amore”. Si diventa sordi e ciechi, non solo nei confronti della partner, ma anche di se stessi, del proprio analogo bisogno di ascoltare e capire se stessi. E Nel momento in cui si annulla la capacità di ascolto e dialogo con la realtà propria e altrui (la realtà è un interlocutore spesso scomodo, poiché pone limiti e invita alla consapevolezza e alla presenza a se stessi), ci si avventura in una dimensione autoreferenziale di tipo psicotico, vicolo cieco in cui l’atto violento sembra essere l’unica via di uscita, nei casi estremi.
Vediamo questa problematica in nuce, e non estremizzata, anche negli interrogativi dei ragazzi adolescenti che incontriamo nelle scuole. In loro l’incontro con il desiderio sessuale, che apre all’altro, porta con sé tante domande e dubbi relativi a come stare di fronte all’altro, a come integrare il mio con l’altrui desiderio, spesso sentito già come “bisogno” tendenzialmente assolutizzato.
Negli adolescenti, che stanno crescendo e si stanno formando, spesso si incontra la tentazione narcisistica della strada autoreferenziale, concentrati come sono su di sé, sul desiderio di soddisfacimento dei propri impulsi e sentimenti. Hanno necessità di integrare queste iniziali scoperte dei propri impulsi e sentimenti con una dimensione più oggettiva di conoscenza di sé e dell’altro. Fa parte del processo naturale di maturazione della persona, che può esser consapevolmente assunto come compito dell’adolescente, con buoni esiti di strutturazione oggettuale, in un percorso identitario sempre in movimento. Riscontrare invece negli adulti questa autoreferenzialità narcisistica, statica ed assolutizzata, è più preoccupante, perché rivela una soggettività immatura, con evidente fragilità nel confronto con la realtà, ridotto a “scontro” con la realtà stessa, tramite atti più o meno violenti e distruttivi.
Guido Banzatti, Cristina Crippa
(Psicoterapeuti del Consultorio La Famiglia, Milano)