Chi era per me Gualtiero Marchesi? Era “il” cuoco italiano. Punto. Lo dicemmo nel novembre del 2008, davanti a una platea di cuochi, convocati da me e Marco Gatti all’hotel Melia’ di Milano. Sul palco c’erano i suoi nipoti, ancora minorenni, ognuno con uno strumento musicale. Quanto entro’ Gualtiero si misero a suonare per lui. Poi salirono sul palco una decina di cuochi fra cui Carlo Cracco, Davide Oldani, Andrea Berton, Ernest Knam, Pietro Leeman, i suoi allievi, mentre leggevamo le motivazioni di quel momento solenne, preceduto dal saluto della sindaca di Milano e del presidente della Regione Lombardia. “Gualtiero Marchesi, per tutti noi – dicemmo – e’ il maestro, ma soprattutto un cuoco profondamente italiano perché ha dentro la musica, l’arte, il gusto e la famiglia. E ha fatto cultura, segnando una continuità con la storia del nostro Paese, come se nei suoi piatti ci fossero i dipinti di Pier della Francesca o la Primavera di Vjvaldi”. Perché ci venne in mente quel riconoscimento, sembra quasi una contraddizione: il suo ristorante non c’era sulla nostra guida e anni prima, quando lavoravamo alla guida dell’Espresso, furono diverse le critiche che muovemmo al suo ristorante in Franciacorta.
Ma ad un certo punto ci accorgeranno che tutto il cambiamento, decisamente epocale, che aveva portato nella cucina italiana, ma anche nella cultura stessa del mangiare e bere, non si poteva ridurre a un voto. I suoi frutti erano evidenti, la rivoluzione che aveva innescato mettevano persino in imbarazzo quella critica francese alla quale lui rispose rinunciando alle stelle. Ed oggi che quell’uomo così sensibile non c’è più, di colpo, mi sovviene una frase dei salmi: “Cos’è l’uomo perché te ne ricordi ?”.
Già, Gualtiero con la cucina, ha fatto quello che un musicista riesce a fare con le note o un artista coi colori: tanti tentativi per arrivare a un’espressività che rasenta la perfezione. Un risultato che magari non raggiunge più il maestro, ma ci arrivano però i suoi allievi. Ecco Gualtiero Marchesi era alla fine questo: Il maestro. Quello che, dopo la cucina francese che lo aveva ispirato negli anni Settanta si accorgeva del valore di quella giapponese, prima che ci arrivassero, come ci sono arrivati, tutti gli altri. Era quello che ti spiazzava quando gli chiedevi una ricetta dove lui si riconoscesse: “Gli spaghetti alla milanese” ci propose, quelli che, con un pizzico di zafferano e burro e facevano i suoi genitori all’albergo del mercato. Questa era la tradizione, dentro cui giocava, quando era il caso, l’innovazione.
Quale frutto ti ricordi della tua infanzia ? Gli chiesi una volta per un’intervista. E lui rispose secco: “l’Anona”, che si coltiva pressoché solo in Calabria e per due mesi l’anno. Era curioso fin da bambino, e si commosse quando gli feci arrivare una cassetta direttamente dall’anoneto delle stretto, dal mio amico Francesco Saliceti. È stata una pietra miliare la sua attività, che ha costretto il mondo del gusto a mettersi in discussione, a volare alto. Per questo non è stato compreso fino in fondo. E credo sia per questo, il giorno dopo della sua dipartita, che ci siamo ancora tante le voci dei cosiddetti guru del gusto, che non hanno avuto nulla dire. Oppure hanno detto, alcuni, quasi per prendersi l’applauso al funerale, triste eufemismo per indicare coloro che non sono andati oltre a un voto, a un piatto, a un mestiere. Che invece aveva dentro un’anima. Un’anima italiana.