Non è stato un Natale come gli altri al di là del Tevere. Hanno fatto rumore le parole, tutt’altro che di circostanza, con cui il Pontefice ha guidato queste giornate: dagli auguri alla Curia RomanaSanta Messa di Mezzanotte all’Angelus di Santo Stefano, passando per la tradizionale benedizione “Urbi et Orbi” del 25. Ogni intervento è stato cesellato e pensato per incidere, per scuotere: l’umiltà di Maria che non si mette in mostra, la rivoluzionaria tenerezza che a Betlemme dona cittadinanza nel mondo a tutti coloro che hanno perso speranza, il volto dei bambini cui guardare senza esitazione ad ogni latitudine della terra, la preghiera del martire Stefano che si è lasciato trasformare per sempre dall’amore. In tanti non hanno gradito questo magistero “sociale”, “schierato”, “politico” del Papa, acuendo pregiudizi e accuse verso quello che sempre di più — giorno dopo giorno — si presenta come un pontificato di rilettura profonda del significato che ha l’essere cristiani nel mondo contemporaneo.
Ma che cos’è che inquieta di questo strano uomo che si accalora per i migranti, per i sequestrati e per i senza tetto, mostrando apparente indifferenza rispetto al tracollo culturale dell’Occidente una volta cristiano? Rispetto al mondo, papa Francesco non fa altro che accendere la luce, portare l’attenzione, laddove l’imperativo di una società il cui “modello di sviluppo è ampiamente superato” vorrebbe invece spingere all’intimismo, al consumo, ai buoni sentimenti: Bergoglio rifiuta di ridurre il Natale ad una festa culturale, cercando di restituirle la carica rivoluzionaria e sovversiva delle origini, ovvero la notizia di una periferia che diventa in una sola notte il cuore del mondo, portatrice di salvezza. Ma Francesco parla anche ai cristiani e li disturba, senza remore, per invitare ciascuno ad abbandonare sicurezze e certezze del passato, vivendo il tempo presente come una grande sfida e una grande opportunità.
Al fondo di tutto, però, la cifra che rende “insopportabile” papa Francesco è la pretesa che emerge dalle sue parole di annunciare un Dio che è vivo: il cuore di questo pontificato, infatti, è la Resurrezione, la coscienza che tutti i cristiani siano chiamati a scegliere tra un Cristo morto, codificato in leggi e tradizioni che disegnano l’identità dell’Occidente proteggendolo, oppure un Cristo vivo, pellegrino nel mondo attraverso quell’umanità che Egli ha definitivamente assunto e redento. “Il Verbo si è fatto carne ed è rimasto carne” diceva Agostino: a ben vedere lo sforzo del Pontefice è tutto in questa inesorabile continuità tra Natale e Pasqua, tra Incarnazione e Resurrezione, tra annuncio e salvezza.
La sfida che si apre per tutti, credenti e non, si gioca pertanto ad un livello personalissimo, il livello del bisogno umano di ognuno. Al termine di questi giorni di festa e di famiglia, di solitudine o di malcelato dolore, tutti possono verificare e giudicare se quello di cui hanno necessità sia qualcosa di vivo o di morto. Di che cosa ha sete la vita? Che cosa la riempie? Che cosa la accompagna e la sostiene? La Presenza viva e dirompente del migrante e del bambino oppure il fascino delle parole e delle certezze del passato? Che cosa può cambiare lo sguardo di fronte ad un amico che muore, ad una relazione che finisce o ad una vita che stenta a trovare la giusta vis? Difficile rispondere. E questa difficoltà non nasce tanto da un problema di analisi intellettuale, bensì dalla fatica che si fa ad arrendersi, oggi come nel primo giorno, al fatto che la salvezza, la potenza di Dio, arrivino nell’esistenza non per formule o per prodigi straordinari, ma nella penombra e nell’ambiguità di una storia particolare. Proprio come quella di Maria e Giuseppe che papa Francesco non ha mai smesso in questi giorni di raccontare. Coniugandola non al passato, ma ad un incredibile — e fastidioso — indicativo presente.