“Educare” è verbo di strappi: portare fuori, perlustrare, prendere per mano, estrarre da sotto. E’ verbo di scultore, mestiere del minatore, passione d’artista: una sorta di liberazione da qualcosa che intrappola, da una sorta di prigionia: “L’educazione è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo” (N. Mandela). Mentre lo si declina — “Io educo, tu educhi, noi educhiamo — è forte il sospetto che “educare” sia pure verbo di umiltà: tirare-fuori è l’opposto di mettere-dentro. Il primo suppone un’altissima percentuale di stupore: la statua è lì, nel marmo. Lo scultore è l’educatore che, estraendola, la libera dall’invisibilità: ci toglie il superfluo, fa brillare il necessario. Il secondo tradisce la smania di chi ha il vizietto di imporre: fai così, prendi questa cosa qui. Educare è un’arte, tra le più alte sotto il cielo: una faccenda del cuore, una sorta di fidanzamento.
Il carcere — questa immensa colata di ferro e cemento statale — è luogo in cui l’educare è dramma e musicalità. In nessun altro posto s’avverte l’apparire di che cosa sia l’educazione. Di più: di quanto abbia inciso l’avventura dell’educare in chi, abbindolato dalla libertà, s’è cacciato nel paese dei balocchi. “Ma quanto tempo perdete là dentro, in galera, con quella gente” mi hanno rinfacciato in un bar della città, leggendo gli ultimi fatti di cronaca dal nostro carcere. “Di più!”, ho risposto loro: la notizia della doppia revoca della semi-libertà al figlio di Riina e a Giuseppe Avignone, appartenenti alla nostra popolazione detenuta, era sotto gli occhi, scritta sui giornali, in prima pagina. Negarla, anche solo tentando qualche giustificazione, sarebbe parso intellettualmente disonesto: ammissione implicita di vergogna del tempo perso. Accettarla — “Dispiace: è il prezzo della libertà. E’ il rischio di chi educa” ho tentato di spiegare loro — non è sciacquarsi le mani: anche questo sarebbe vigliacco. L’educatore che fallisce, magari dopo aver già fallito, mica è uno scimunito per riprovarci: è semplicemente così pragmatico da intuire che se nessuna semina garantisce il raccolto, la non-semina è certezza assoluta che non ci sarà raccolto. E’ per questo che il contadino, appena dopo la seminagione, invoca la buona sorte: “A fulgure et tempestate, a peste, fame et bello (libera nos Domine!)”. Semino, poi non tutto dipende da me: aiutaci!
L’educare è, dunque, affare poco certo: nessuno, mentre la persona è nel carcere, può garantire l’esatta ricomposizione di una storia, il ringiovanimento di un’anima. Sarà solo la libertà completa a mostrare, in anteprima anche per chi ha educato, l’esatta incidenza dell’educazione, l’esatta misura di accoglienza della proposta educativa fatta. E’ poco certo: quello di chi educa — in carcere come in seminario, tra le mura di casa — è, dunque, tempo perso? Non penso, anzi: il fallimento è occasione di educazione anche per chi educa. Prima di tutto perché ci riporta coi piedi-a-terra, a fare i conti con la limitatezza dei risultati: “Noi non otteniamo mai dei risultati compatti, otteniamo delle macchie — scrive E. Albinati —: si lavora molto meglio quando si cerca di creare della vita nel momento in cui questa vita sta accadendo, non in vista del futuro”. Cioè: “Rischieremo di fallire” però ci riproviamo. Perché — è sfumatura che ci ripara dall’insuccesso — mentre educo, mi educo: educare è venire-educati, insegnare è apprendere. Il guadagno dell’arte di educare lo leggo nelle gesta di chi educo: lo avverto, però, nel cambiamento che produce in me. “E’ un educatore educato”: doppia sfida.
Oggi inizia l’Avvento: attendere è verbo d’attesa, altissimo tasso di rischio. Questa cronaca di due fallimenti — in realtà sono molti di più — è per me fonte di consolazione: “Molte volte gli uomini hanno infranto la tua alleanza, e tu invece di abbandonarli hai stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù” (dalla liturgia).