Dei suoi sei giorni tra Myanmar e Bangladesh hanno parlato in molti. Forse si era stufato. Forse non gli andava giù che a dire l’ultima fosse chi ha tentato di interpretare ogni mossa, parola o accenno di smorfia. O semplicemente come ha detto ai giornalisti a bordo del Boeing 777 della Biman che lo riportava a Roma, deve aver soppesato la questione, e dopo attento discernimento gesuitico, ha valutato che forse il viaggio tutto Love, Peace and Harmony era meglio che lo raccontasse lui. Certo la mia categoria non ci fa una gran bella figura, ma spero che a muoverlo nella conferenza stampa ad alta quota interamente dedicata a Rohingya e dintorni abbia pesato il suo desiderio di far arrivare il messaggio.
Una prima questione: a chi? Probabilmente l’andamento anomalo dell’interrogatorio a cui molto docilmente Francesco si sottopone ad ogni ritorno a casa, vale a dire il fatto che sia stato quasi completamente dedicato alla visita nel sud-est asiatico senza digressioni, è dipeso dal voler rassicurare i gentili paesi ospitanti sulle sue intenzioni: sulla questione Rohingya, ci mette la faccia e anche tutta la sapienza di quella che ormai viene etichettata come “diplomazia della Misericordia”. Una cosa è certa: costringendo le testate al seguito ad un approfondimento monotematico sulla crisi del Rachaine e sul destino della minoranza etnica più perseguitata al mondo, ha tenuto i riflettori puntati su quella regione del pianeta anche dopo la sua partenza. Mentre la San Suu Kyi riferiva a Pechino e i bengalesi si crogiolavano per il successo dell’incontro con i profughi. Mica male. Conosce i suoi polli. E forse non voleva che le emozioni e la vergogna a cui aveva costretto gli osservatori, abbracciando nel cortile dell’arcivescovado di Dhaka i più disperati della terra, fossero annegate nelle beghe vaticane dei “dubia” o dello “Ior”.
E così Francesco il bilancio e l’analisi del viaggio ha deciso di farlo da solo. Facendoci scoprire che: 1. La parola “Rohingya” l’ha pronunciata quando i tempi erano maturi. Vale a dire al termine di un viaggio che lo aveva portato dal faccia a faccia con i generali birmani e il Premio Nobel San Suu Kyi all’abbraccio con i poveracci dei campi di Cox’s Bazar. 2. Non ha mai avuto intenzione di tacere niente, ma in nome del dialogo (o del fine, direbbe Machiavelli) ha opportunamente tenuto a far passare il messaggio piuttosto che porre imbarazzanti ostacoli terminologici. 3. A volte un po’ di pazienza ottiene più che una “porta sul naso”. 4. Sì, quando ha abbracciato i profughi Rohingya, ha pianto, anche se cercava di non farlo vedere. 5. Che certo, il sospetto sulla richiesta di anticipo dell’appuntamento fatta dai generali birmani gli è venuto (si erano presentati il giorno stesso dell’arrivo di Bergoglio in Myanmar, all’arcivescovado, prima degli incontri istituzionali con presidente e consigliera di Stato, quasi a dire: qui comandiamo noi) ma che lui apre sempre la porta a chi bussa. 7. E comunque non ha negoziato la Verità. 8. Nonostante le innegabili difficoltà, la speranza per una soluzione della crisi dei Rohingya lui non la perde. La sua è una speranza cristiana. 9. Tutti sanno che vorrebbe andare in Cina, ma state tranquilli, non ci andrà a breve. 10. E che in fondo la cosa che gli è piaciuta di più del viaggio è stata la possibilità di parlare con il popolo. Il popolo di Dio. Lo ha fatto felice.
Si potrebbe continuare. Ma credo sia chiaro che la visita in Myanmar e in Bangladesh, tra risciò e monaci di zafferano vestiti, Francesco non la dimenticherà facilmente. E così come desidera, neanche noi.