E’ stato autorevolmente osservato che gli ultimi dati sulla drammatica crisi della natalità in Italia, diffusi dall’Istat il 28 novembre e relativi al 2016, denunciano tutta la paura del futuro che ha attanagliato il nostro paese durante gli anni della crisi, e che sembra ancora lungi dall’abbandonarlo. Certamente, i 100mila nati in meno rispetto all’anno scorso non sono indice di ottimismo, e il fatto che il calo riguardi anche le straniere residenti in Italia spinge a trarre conclusioni che superano le consuete riflessioni sulla scarsità di supporti alla maternità e alla prima infanzia. Eppure, forse vale la pena di partire proprio da queste riflessioni per avanzare il sospetto che la carenza di nascite sia frutto di un’aridità, di una insensibilità, in altri termini di una carenza d’amore, prima ancora che di fiducia.
Tutte le volte che ci si accinge a ipotizzare misure di conciliazione tra famiglia e lavoro che potrebbero alleviare il carico sulle spalle dei genitori lavoratori, infatti, immancabilmente il pensiero corre alle soluzioni che prevedono l’affidamento dei figli a terzi fin dalla primissima infanzia, a partire dagli asili nido, tipico approdo di chi considera l’essere padre e madre un fastidioso incidente. L’affidamento di un figlio alle cure di una sorta di avatar dei genitori a basso costo rappresenta lo strumento ideale solo agli occhi di chi vede i figli, anche a questa tenera età, come problemi da risolvere, incombenze da sbrigare, ostacoli alla carriera, al successo, o anche solo al godimento della giornata. Troppo poco ci si è interrogati, ci si interroga, sulle confessioni a mezza bocca di chi, sulla soglia della fatidica età fertile, e magari appena arrivato in un nuovo paese, riflette sul fatto che, sapendo già di non avere nessuna possibilità di accudire personalmente un figlio, di tenerlo tra le braccia, di nutrirlo, cambiarlo, guidarne i primi passi, insegnargli a parlare, a pensare, a vivere, semplicemente decide di rinunciarvi; troppo poco si medita sul ruolo di questa scelta nell’ambito di quella generale, generica paura del futuro.
Il dilemma della cura non si ferma all’età neonatale. Un vecchio detto recita “figli piccoli, problemi piccoli; figli grandi, problemi grandi”, e sembra riecheggiare le considerazioni di chi preferisce astenersi del tutto dall’intraprendere questo cammino. Soluzioni come quelle percorse finora, tra le quali i nidi, non fanno che incoraggiare la prospettiva dell’inaridimento, e dunque della rinuncia, incidendo perciò negativamente sul vero problema: le motivazioni. Chi sceglie oggi se avere figli o meno in Italia, come mostrano i dati Istat, lo fa sempre più in là negli anni: con sempre maggiore preoccupazione e sempre minore convinzione; sempre meno pronto a mettersi in discussione e rivedere le sue priorità. Il fatto che anche i nuovi arrivati nel nostro paese rallentino il tasso di riproduzione ha a che fare meno con la disponibilità di sussidi, oboli o avatar che con l’omologazione al costume dominante.
Per contrastare questa tendenza, serve dunque anzitutto contrastare la desiderabilità di una vita sterile: serve ridare alla nascita di un figlio il senso di meraviglia, ricchezza, promessa, crescita. Serve ridare valore e dignità alla cura parentale, il lavoro più importante cui un essere umano possa dedicarsi lungo la sua vita; serve scrollarsi di dosso la grettezza di una società convinta che i figli siano pannolini da cambiare, serate da saltare, straordinari e trasferte cui rinunciare, rumori da attutire, insomma problemi da risolvere. Un figlio è amore: riconoscerlo, e adoperarsi perché tutta la società lo riconosca, è parte indispensabile dell’inversione di rotta.